sabato

Il G8, gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo e la cooperazione internazionale

Il G8 che si tiene in questi primi giorni di luglio nell’Abruzzo post-terremoto, dà la possibilità di notare le campagne di sensibilizzazione nei confronti dei “grandi” riuniti e, più realisticamente, delle popolazioni spettatrici, riguardanti questioni di respiro mondiale e di fare qualche riflessione.

In questo G8 “italiano” la tematica principale toccata dai mass media riguarda gli aiuti ai Paesi poveri; ovviamente, come al solito, bisogna considerare la questione senza cadere nella futile propaganda, che, per esempio, attraverso le parole di un cantante “globale” come Bob Geldof, accusa il governo Berlusconi di non stanziare abbastanza fondi per gli aiuti alla cooperazione; in realtà, le cose non sono così semplici.

Tanto per cominciare, lo stanziamento dei fondi per la cooperazione è stato costante, in Italia come altrove, a prescindere da quale governo sia stato alle redini del Paese: governi di centro-destra, centro-sinistra, cosiddetti governi “tecnici”, nulla hanno fatto segnalare riguardo cambiamenti di rotta nella cooperazione. Quindi prendere la questione dal lato propagandistico comporta soltanto lo sviare l’attenzione dal fatto che l’approccio alla cooperazione è stato comune in tutto il mondo industrializzato; anzi, per la verità, nel 1997, i flussi dell’assistenza allo sviluppo hanno raggiunto il minimo storico e soltanto 5 Paesi hanno rispettato in questi ultimi dieci anni l’impegno di destinare lo 0,7 % del reddito nazionale lordo agli aiuti: la cosa interessante è che tutti questi Paesi sono europei ed è infatti unanimemente riconosciuto che è proprio l’Unione Europea ad essersi più di ogni altro impegnata in questo settore. Chi oggi critica i governi prendendo spunto dalle parole di Obama o del governo inglese, dovrebbe tener presente che questi ultimi, interessati come sono a mantenere la supremazia economica e politica sia verso il “Terzo mondo” sia verso la stessa Europa, alla quale fanno fare scelte economiche e politiche che la tengono a freno, si sono sempre ben guardati dal fare qualcosa di concreto (anche a livello ambientale, vedi il protocollo di Kyoto non firmato dagli Usa appunto per non perdere la supremazia economica).

Ma la questione centrale non è quella che riguarda la quantità dell’importo degli aiuti (che come abbiamo notato è di gran lunga migliore in Europa), bensì della sua qualità; dopo decenni di “aiuti” allo sviluppo sempre maggiori, le disparità fra primo e “Terzo mondo” si sono costantemente incrementate. Questo significa che non basta e non è assolutamente attinente agli obiettivi il maggiore o minore stanziamento economico, ma l’importante è il tipo di logica e di prassi che è dietro lo stanziamento.

In questo senso è importante rendersi conto che le succitate campagne di sensibilizzazione, altro non fanno che riproporre gli schemi della cooperazione fallimentare sin qui effettuata, cosa confermata dalle parole dei soliti paladini della cooperazione Bono Vox e Bob Geldof che ora elogiano Obama (Usa), Brown (Inghilterra) e la filo-americana Merkel (Germania); senza nemmeno voler commentare il significato di una campagna di questa importanza affidata a cantanti che impersonano con la loro figura la più vera e brutale globalizzazione culturale, è comunque evidente che questioni così presentate, solleticanti il senso di carità e null’altro, a niente servono se non a permettere i soliti aiuti “vincolati”, cioè aiuti dati in cambio della sottomissione alla propria causa.

Una cooperazione efficace – ormai lo si riconosce da più parti – deve abbandonare questi classici schemi post-coloniali e post-imperialisti e deve essere ripensata in modo che davvero possa dare dei risultati. Bisogna puntare su una cooperazione per così dire “regionale”, che non passi attraverso gli imperativi globalizzanti controllati dalla potenze globali anglo-americane, e che quindi non risponda alle logiche di un “villaggio globale” pensato ad immagine e somiglianza del mondo “occidentalizzato”. Soltanto in questo modo gli Stati potrebbero mantenere la propria sovranità (senza doverla sacrificare sull’altare degli aiuti) e, cooperando con altri Paesi con cui condividono interessi geopolitici e geoeconomici, riuscire a migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini.

Purtroppo dobbiamo segnalare che le grandi istituzioni mondiali mal vedono organizzazioni del genere: pensiamo all’ALBA sud americana, che vuol migliorare le condizioni dell’America Indiolatina senza doversi piegare ai diktat nordamericani; o pensiamo alle critiche ricevute dall’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai (che riunisce Cina, Russia, Repubbliche centroasiatiche e dialoga, per esempio, con l’Iran), in quanto considerata antagonista alla coalizione protetta dalla NATO. Soprattutto dopo la fine della Guerra fredda, e quindi nel lasso di tempo in cui vi era stata l’illusione del “governo mondiale” targato Usa, unica superpotenza rimasta, vi è stato il rilancio invece di una cooperazione allo sviluppo indirizzata al raggiungimento degli interessi del polo egemone; ed in questo senso va ripensato o comunque ridefinito il concetto di “sviluppo”, che oggi nasconde la salvaguardia dello status quo internazionale; Paesi come per esempio l’Iran – per citare una zona calda – che negli ultimi anni ha migliorato considerevolmente la vita a milioni di suoi cittadini, riguardo salute, aspettative di vita, malattie, opportunità per le donne e bambini, non solo non viene citato ad esempio, ma viene minacciato di guerra e viene sottoposto a sanzioni. Ciò a testimonianza di come sia fallace il concetto di “sviluppo” e di come sia legato all’appartenenza alla coalizione capeggiata dagli Usa.

Ma oltre l’approfondimento e il chiarimento del concetto di sviluppo, che bisognerà comunque affrontare decisamente, una lampante dimostrazione di come campagne di sensibilizzazione legate ai grandi mass media globali e decisioni delle istituzioni “multilaterali” ancora oggi sotto tutela americana siano legate e non si distinguono nel significato, può essere visto nelle contestazioni, nazionali e internazionali, che hanno investito il governo italiano, al momento degli accordi conclusi con la Libia di Gheddafi.

La questione è davvero incredibile: Gheddafi è il Presidente dell’Unione Africana (UA) che raccoglie praticamente tutti i Paesi del continente (tranne il Marocco) ed ha come obiettivi, per semplificare, tutti quei principi che possono migliorare la vita dei cittadini africani e che sono gli stessi che troviamo alla base del concetto di cooperazione. Allora come mai, un accordo fatto direttamente con uno dei più alti rappresentanti degli africani viene contestato, e poi invece si richiedono aiuti e sforzi maggiori? Ovviamente è ormai chiaro che, accordi di tipo regionale, come quello che lega l’Italia e la Libia, grandi Stati del Mediterraneo, mettendo neanche in secondo piano, ma facendo in un certo qual modo concorrenza ai grandi canali globali della cooperazione “mondialista”, non sono visti di buon grado dal polo anglosassone. Ed invece è proprio attraverso quelle modalità, come attraverso una cooperazione sud-sud, che sarà possibile fare qualcosa di concreto per le grandi masse che oggi vivono in estrema povertà; e questo sarà tanto più possibile quanto più non comporterà intromissioni nella sovranità e nella cultura di queste vaste aree del pianeta. La situazione geopolitica mondiale, oggi fluida come mai, indirizzata verso un futuro multipolarismo grazie alla crescita di alcuni grandi Paesi in via di sviluppo, e al ritorno sulla scena di grandi potenze, toglieranno l’egemonia al polo statunitense, rendendo possibile un nuovo approccio alla cooperazione internazionale.

Luglio 2009 Cpeurasia

Un "complotto"? Contro lEurasia senz'altro

Sabato 20 giugno, in ritardo sul resto dei giornali italiani, anche “L’Unità”, uno dei quotidiani più filo-americani e sostenitore (sostenuto) del Partito Democratico, ha dovuto ammettere, solleticando la simpatia che i propri lettori hanno per Barack Obama e gli Stati Uniti, che i rapporti fra quest’ultimi e Berlusconi non sono al massimo grado di cordialità per via dei contatti e degli accordi firmati dall’attuale governo italiano e la Russia “putiniana” riguardo soprattutto al gas e la questione energetica. Essendo “L’Unità” espressione di ambienti filo-liberali ed atlantisti, ovviamente considera negativamente ogni scelta compiuta senza seguire gli interessi di questi stessi ambienti, ma è importante notare come non possano più fare a meno di censurare (come hanno fatto fino ad ora, nascondendolo ai propri lettori) uno degli aspetti della vera partita che l’attuale fase storica, portatrice di cambiamenti geopolitici su scala planetaria, sta ponendo all’Europa ed in particolare all’Italia: gli accordi riguardanti lo sviluppo della ricerca e la distribuzione dell’energia. È in questo campo che bisogna ricercare il significato degli odierni rapporti internazionali e che si possono spiegare le ultime notizie nazionali e non; per quanto riguarda le prime, la stessa “Unità” ha dovuto citare la questione del “complotto” che ci sarebbe ai danni del Presidente Berlusconi, parlando di alcune donne (presumibilmente escort) che oggi stanno aprendo il vaso di Pandora tramite le loro dichiarazioni, come possibili “spie”. Che ci sia un complotto vero e proprio, costruito su questioni false contro Berlusconi è molto improbabile, vista anche la poco etica vita sociale del personaggio, ma di certo l’utilizzo di tali notizie e denunce di ordine personale e privato, sono utilizzate oggi dai gruppi di interesse che, seguendo le direttive nordamericane, non vedono di buon occhio l’amicizia con la Russia e stanno mettendo in atto una nuova azione di “contenimento” che abbiamo già visto sul nostro territorio ai tempi della “dottrina Truman”; questi ambienti sono ampi e potenti e possono essere rintracciati anche in settori della coalizione dello stesso Berlusconi: basti pensare a Fini (prossimo Presidente della Repubblica?) ed il suo gruppo, ma anche alla Lega Nord, così importante per la maggioranza, ma così interessata a secessionismo e “scontro di civiltà” entrambi cavalli di battaglia della democrazia-export Usa. Tutto ciò va quindi considerato anche alla luce della nuova situazione internazionale, e questo lo si può vedere attraverso ciò che sta succedendo in Iran, ed anche attraverso le menzogne che vengono rilanciate dai nostri media; la stessa “Unità” (continuiamo ad utilizzare questo giornale per sottolinearne la coerenza della posizione filo-americana) è molto impegnata a rilanciare l’idea di un Iran tirannico, arretrato e violento, in cui le elezioni vengono pilotate per sconfiggere i buoni e giusti membri dell’opposizione “moderata”. Ora, tralasciando del tutto la questione, ben affrontata da altri (1) è fondamentale rendersi conto come questa posizione sia la copia esatta dell’odierna posizione degli Stati Uniti: l’odierna amministrazione, nelle figure per esempio di Brzezinski (2) e dei Clinton, è completamente permeata da una russofobia di lontane origini. Subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, infatti (ma la questione potrebbe essere rintracciata anche precedentemente), con l’inizio della “Guerra fredda”, gli interessi nel controllo del continente eurasiatico, portarono gli USA ad impegnarsi politicamente e militarmente in quelle aree dalle quali poter accerchiare “l’Impero del male” sovietico: in tale situazione l’Italia nel Mediterraneo ed altri Stati nell’est asiatico videro gli Stati Uniti occupati ad appropriarsi della sovranità locale, per esempio con numerose basi ancora oggi presenti (più di 100 nella sola Italia!), per impedire ogni avanzata della sfera geopolitica russa; con il crollo dell’Urss e i pochi anni seguenti che produssero l’illusione del dominio totale e planetario degli Usa, tanto da parlare di “fine della storia”, si vide un abbassamento della guardia nei confronti della Russia in crisi, e un nuovo respiro mondiale globalizzatore, attraverso concetti quali “sviluppo”, “diritti umani”, “partenariato mondiale” volti a garantire il dominio atlantico e liberista sul mondo intero. Ma negli ultimissimi anni il ritorno della Russia e la crescita di altre potenze quali Cina, India, Brasile, Venezuela, combinata con la crisi economica che ha colpito fortemente gli Usa, hanno prodotto una lenta ma decisa evoluzione degli equilibri geopolitici, riportando l’attenzione degli Stati Uniti al controllo del “cuore del mondo”, ossia l’Eurasia. Per questo motivo le scelte dell’Italia tornano ad essere importanti per l’amministrazione americana ed un governo che ponga in essere delle scelte “autonome” rispetto al polo “occidentale” è guardato con sospetto e possibilmente messo alle corde. Così come, fatti i dovuti distinguo, viene destabilizzata la situazione interna dell’Iran (fondamentale per lo stesso accerchiamento della Russia/Eurasia) (3) e quella pakistana dove da poco tempo sono spuntati fuori i famosi “talebani” che paiono uscire come funghi dove c’è bisogno di un intervento militare a stelle e strisce.

Purtroppo la classe dirigente italiana lascia molto a desiderare come capacità di esercitare una reale sovranità (il problema si pone, ad un livello più tragico, sul piano dell’UE), tanto che se il Governo italiano ha compiuto quelle scelte, in contrasto con gli interessi atlantici e la nuova “Dottrina Truman”, è perché ha dietro aziende dalla storia e dagli interessi legati all’Eurasia (si pensi all’ENI); ma si tratta di una cosa che, se non supportata da sincere politiche in quella direzione “sovranista”, potrebbe essere ‘a termine’, senza sviluppi duraturi. C’è dunque un assoluto bisogno di analizzare la questione col più ampio respiro possibile, così da non cadere nelle eterne diatribe politiche (destra/sinistra ecc.) utili solo a confondere la verità dei fatti. L’Italia, finito il periodo post-guerra fredda, torna ad essere un importante appendice dell’Eurasia rivolta al Mediterraneo ed è compito degli italiani rendersi conto della situazione odierna e decidere se agire per gli interessi di Europa/Eurasia per promuovere un futuro multipolare o per quelli, tesi al mantenimento della supremazia unipolare, degli Stati Unti.


NOTE:


1) Da leggere gli articoli di Gianluca Freda:


http://blogghete.blog.dada.net/post/1207096324/DIETROLOGIA+IRANICA+PER+PRINCIPIANTI#more


http://blogghete.blog.dada.net/post/1207096118/L%27INVASIONE+DELLE+BALLE+GIGANTI#more


http://blogghete.blog.dada.net/post/1207097398/I+FILI+RIVELATI#more


http://blogghete.blog.dada.net/post/1207097772/N.E.D.A.+(NATIONAL+ENDOWMENTS+FOR+DEMOCRACY+ASSOCIATED)#more


2)Ascoltare l’intervista a W. Tarpley http://www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=3010


3) http://www.cpeurasia.eu/401/obama-e-l’iran-una-“mano-tesa”-poco-amichevole

Giugno 2009 Cpeurasia

L'anomalia Berlusconi?

di Matteo Pistilli. Davvero Berlusconi è un’anomalia inconcepibile altrove? Oppure è una questione che nasconde altro?



Nel panorama politico italiano è impossibile affrontare qualsiasi discorso senza toccare l’argomento “Berlusconi”. Che ci piaccia o meno, il Berlusconi imprenditore, il Berlusconi politico, il Berlusconi ‘personaggio’ e via dicendo, sono ormai un fattore che non si può ignorare; soprattutto, ciò che ha condotto a questa situazione sono le campagne propagandistiche delle cosiddette “sinistre” che, trovandosi senza più nessun tipo di idea o progetto da proporre, hanno puntato tutto sull’attacco personale a Silvio Berlusconi. Con questa fallimentare strategia hanno fra l’altro raggiunto il risultato opposto a quello che si erano poste, rinforzando l’attuale Presidente del Consiglio e indebolendo se stesse, ormai non sentite più come portatrici di alcuna “visione alternativa” rispetto al Cavaliere.


Ma la figura di Berlusconi è molto interessante, e non perché rappresenti un’anomalia, come vogliono farci credere i suoi antagonisti, bensì perché con la sua specificità rappresenta evidentemente e direttamente il normale funzionamento del sistema liberal-democratico. Non saltino sulla sedia i tifosi anti-berlusconiani, come non si scandalizzino i tifosi pro-berlusconiani: lasciate andare per pochi minuti le partigianerie, e tenteremo di spiegare quanto affermato.


Affronteremo le tematiche che più spesso si associano al Presidente Berlusconi cercando di sottolinearne il significato.


Di sicuro la prima specificità del capo del PdL, quella che più gli fa piovere critiche addosso (di per sé legittime e sensate, lo diciamo subito), è il binomio CONFLITTO di INTERESSI / CONTROLLO dei MEDIA. Si fa giustamente notare come una grande concentrazione nel controllo dei mass media sia deleteria per il confronto politico e, più in generale, per la cultura politica (e non solo) italiana, e per una corretta “prassi democratica”, soprattutto se tutto quel potere informativo è concentrato nelle mani di uno degli uomini politici più potenti d’Italia. Ripetiamo che non c’è niente di sbagliato nel rilevare ciò, poiché è evidente a chiunque quanto oggi siano fondamentali i mass media per informare (ovvero “dare forma” al-) le persone e, di conseguenza, quanto sia pericoloso che tutta l’informazione sia nelle mani di qualcuno che voglia abusarne, soprattutto se l’unico obiettivo è il profitto economico senza alcun “senso dello Stato”.


Ma quello che vale per Berlusconi ovviamente deve valere per tutti, e se allarghiamo lo sguardo ragionando senza farsi predare dai fumi della faziosità, ci rendiamo conto che la particolarità (la “colpa”) di Berlusconi è solo quella di rendere palese senza troppi infingimenti le sue smisurate proprietà e rendere altresì evidente il nesso che queste hanno con il potere politico. Il Presidente del Consiglio, proprietario di Mediaset, della Mondadori, del Milan, di banche, di finanziarie ecc. ha la particolarità di evidenziare come tutte queste proprietà siano nelle mani di un unico interesse.


Bene, detto questo dev’essere chiaro che questa è esattamente la prassi del vigente sistema capitalista liberal-democratico acclamato sia “da destra” che “da sinistra”. Tutte le maggiori aziende del mondo – in questo caso, nel campo dell’informazione – sono controllate da determinati centri di potere (molto più grandi di Berlusconi) ed hanno interessi ovviamente sia politici che economici; solo che, diversamente dal caso italiano, negli altri casi ciò risulta meno chiaro e, soprattutto, occultato da chi dovrebbe portarlo a conoscenza della gente.


In tutto l’Occidente, solo quattro grandi multinazionali controllano praticamente tutto quello che viene passato sui teleschermi di televisioni e cinema. La prima di queste aziende è la AOL Time Warner (Solo per questa elenchiamo a mo’ d’esempio tutti i rami: varie case editrici tra le quali Time-Life International Books, Time-Life Education, Time-Life Music, Time-Life AudioBooks, Book-of-the-Month Club (sia la “divisione” bambini che quella adulti), Paperback Book Club, History Book Club, Money Book Club, HomeStyle Books, Crafter’s Choice, One Spirit, Little Brown, Bulfinch Press, Back Bay Books, Warner Books, Warner Vision, The Mysterious Press, Warner Aspect, Warner Treasures, Oxmoor House, Leisure Arts, Sunset Books e TW Kids. La AOL-TW controlla poi le seguenti TV via cavo e satellitari: Cinemax, Time Warner Sports, HBO (7 divisioni americane e 6 internazionali), CNN (10 divisioni in tutto il mondo), Time Warner Cable, Road Runner, Time Warner Communications (servizio primariamente telefonico), New York City Cable Group, New York 1 (una specie di CNN dedicata esclusivamente all’ area di New York), Time Warner Home Theater, Time Warner Security (video monitoring), Court-TV (in comproprietà con Liberty Media), Comedy Central (in comproprietà con Viacom) e Kablevision (Ungheria). La stessa società controlla i seguenti canali TV e studi cinematografici: Warner Brothers, WB studios, WB Television (produzione, animazione e reti), Hanna-Barbera Cartoons, Telepictures Production, Witt-Thomas Productions, Castle Rock Entertainment, Warner Home Video, WB Domestic Pay-TV, WB Domestic TV Distribution, WB International TV Distribution, The Warner Channel (società separate sono state create per l’ America Latina, l’ Asia e la regione del Pacifico, l’ Australia e la Germania) e WB International Theaters in 12 paesi. Time, Time Asia, Time Atlantic, Time Canada, Time Latin America, Time South Pacific, Time Money, Time For Kids, Fortune, Life (la nuova versione blanda), Sports Illustrated (e le varie versioni di Sports Illustrated come SI Women/Sport, SI International e SI For Kids), Inside Stuff, Money, Your Company, Your Future, People, Who Weekly (Australia), People en Español, Teen People, Entertainment Weekly, EW Metro, The Ticket, In Style, Southern Living, Progressive Farmer, Southern Accents, Cooking Light, Travel Leisure, Food & Wine, Your Company, Departures, Sky Guide, Vertigo, Paradox, Milestone, Mad Magazine, Parenting, Baby Talk, Baby on the Way, This Old House, Sunset, Sunset Garden Guide, Health, Hippocrates, Costal Living, Weight Watchers, Real Simple, President (Giappone) e Dancyu (Giappone). Questo diluvio cartaceo non tiene conto delle altre decine di riviste (prevalentemente di hobbistica e tempo libero) che AOL-TW possiede nel Regno Unito e che si aggiungono a questo non disprezzabile pacchetto di case discografiche: Atlantic Group, Atlantic Classics, Atlantic Jazz, Atlantic Nashville, Atlantic Theater, Big Beat, Background, Breaking, Curb, Igloo, Lava, Mesa/Bluemoon, Modern, Rhino Records, Elektra, East West, Asylum, Elektra/Sire, Warner Brothers Records, Warner Nashville, Warner Alliance, Warner Resound, Warner Sunset, Reprise, Reprise Nashville, American Recordings, Giant, Maverick, Revolution, Qwest, Warner Music International, WEA Telegram, East West ZTT, Coalition, CGD East West, China, Continental, DRO East West, Erato, Fazer, Finlandia, MCM, Nonesuch e Teldec.) [1]


Le altre tre, di cui non elenchiamo le ramificazioni, sono Disney, Viacom INC, Vivendi [2].


Dev’essere chiaro che la cultura e l’informazione che queste multinazionali diffondono in tutto il mondo, data la potenza e i collegamenti di cui usufruiscono, riesce a pilotare tranquillamente tutto il complesso della cultura occidentale. Ed allora qual è in questo campo la specificità, l’anomalia di un Berlusconi? Solo quella di rendere palese e noto a tutti il controllo su tre canali televisivi e diverse attività editoriali. Perciò, nell’evidenza della sua situazione, Berlusconi ci rende il favore di aprirci gli occhi su come funziona l’industria del consenso e di come sia in pochissime mani il controllo dei mass media di tutto il mondo.


Anche per l’Italia la situazione è più o meno la stessa, visto che oltre alle proprietà di Berlusconi soltanto due grandi aziende si dividono il controllo dei media: Il Gruppo l’Espresso, che è di proprietà di Carlo Benedetti (“La Repubblica”, 9 periodici, tra cui una rivista geopolitica (LiMes), 15 quotidiani locali, 3 radio, 2 televisioni e un portale multimediale). L’altro terzo grande gruppo è RCS, che ha come principali azionisti MEDIOBANCA, un insieme di banche, industriali e azionisti stranieri tra cui Vincent Bolloré, che è un amico intimo di Sarkozy, e la FIAT; l’RCS possiede 2 quotidiani, tra cui il “Corriere della Sera”, 19 periodici, 11 case editrici più 3 in comproprietà, un’agenzia giornalistica, 2 radio più 4 in comproprietà, 5 canali televisivi e all’estero “El Mundo”, che è molto vicino alle posizioni del Partito Popolare Spagnolo, a sua volta molto vicino ad Israele. In più la FIAT, sempre la famiglia Elkann, controlla direttamente anche “La Stampa”.[3]


Come si deve ancora notare, i mass media sono controllati da poche mani e tutte fanno riferimento a precisi gruppi di pressione politici. Non è infatti un segreto per nessuno che De Benedetti sia un campione e un finanziatore del centro-sinistra, per esempio, ed è quindi ovvio che da questa egli a sua volta verrà privilegiato (e soprattutto dai suoi canali informativi verrà propagandata l’opinione della “sinistra”); o che RCS esprima gli interessi e quindi le opinioni e la cultura delle grandi aziende capitaliste (Grande finanza e industria decotta, come direbbe Gianfranco La Grassa) [4]. Ora, l’unica cosa che differenzia questi due gruppi da quello guidato da Berlusconi è il fatto di non avere la stessa persona che mette la faccia sia nell’economico che nel politico, ma davvero ci si può fermare a quest’aspetto e non prendere atto di come funziona in profondità l’attuale sistema politico?


Tuttavia, la questione non riguarda solo i mass media che hanno la particolarità di pilotare la cultura mondiale, bensì anche i più grandi gruppi di potere che stanno al di sopra dei media e ne dettano la linea: ci riferiamo alle banche multinazionali e alle società finanziarie che sostengono con centinaia di miliardi i candidati alla presidenza degli USA: lo faranno senza una contropartita? Multinazionali alimentari, come è per esempio la Monsanto, che fanno in modo attraverso accordi firmati dagli Stati di garantirsi lo smercio di prodotti brevettati dall’azienda stessa; oppure aziende farmaceutiche che attraverso Banca Mondiale, FMI, e ONU obbligano decine di Stati “sovrani” (?!) a comprare a peso d’oro i propri medicinali brevettati.


Cos’è tutto questo se non CONFLITTO di INTERESSI? Siamo davvero convinti che l’anomalia sia Berlusconi e non sia invece soltanto una piccola ed evidente (per questo utile) conferma di come funziona il sistema in cui viviamo? Davvero possiamo permetterci di considerare Berlusconi un’anomalia da estirpare, infilando così la testa sotto la sabbia, abdicare all’intelligenza umana, senza pervenire alle necessarie conclusioni sui temi della sovranità e della globalizzazione?


Che poi non si credano le anime belle che anche a livello più piccolo non valgano i stessi principi che valgono per le multinazionali! Quello che succede in ogni città e paese, in cui vediamo infilati nei vari posti comunali con contratti più o meno a termine persone fedelissime di quello o quest’altro partito, come lo chiamate voi? E gli appalti aggiudicatisi sempre da ditte di “amici degli amici”? Non è anche quello “conflitto di interessi”? O forse il fatto che non riguardi miliardi di euro fa credere che sia meno grave? Raccomandazioni, mazzette, aiutino, dentro e intorno i vari partiti politici, come li chiamiamo? In effetti, più che “conflitto di interessi”, che almeno in Italia non è illegale in quanto non c’è una legge che per ora lo impedisca (Berlusconi ha fatto approvare leggi al riguardo, mantenute dagli stessi governi “anti-Berlusconi”), questo si dovrebbe chiamare truffa. E quante persone abbiamo sentito tuonare contro Berlusconi, inteso come l’unico “male italiano” e quasi mondiale, ben sapendo che quegli stessi individui hanno aiutato ditte amiche del loro partito a vincere gare d’appalto, altri amici ad aggiudicarsi qualche “bando pubblico”, altri ancora a campare di “lavori socialmente utili”, e poi altri a campare vita natural durante di “finanziamenti pubblici”… niente da dire su questo? Come si pretende che una sola persona possa fungere da capro espiatorio per un intero sistema “democratico” fondato sulla truffa?


Ma lasciamo la parola a Tito Boeri, economista, sostenitore del Partito Democratico, invitato da “L’Unità” a parlare di tutto l’arco politico italiano:


«Sembra più un fenomeno legato agli scambi, siamo quasi nel campo del baratto, voti in cambio di una gara d’appalto confezionata su misura, di un incarico prestigioso o di una nomina. Più difficile anche da perseguire da un punto di vista giudiziario».


«Il 25% dei nuovi ingressi (in Parlamento) vengono dalle imprese. È la quota di manager più alta dal dopoguerra a oggi. Il risultato è che stanno in Parlamento una o al massimo due legislature. Restano però in contatto con il mondo della politica e diventano dei perfetti lobbisti. E il Parlamento è diventato il terreno dove si coltivano i propri interessi».


«Difatti la nostra classe politica si forma nelle aziende private o nei grandi enti pubblici. Le intercettazioni raccontano di un corpo aziendale trasportato in consiglio comunale per cui la politica è roba loro. Ecco perché i sindaci e gli assessori indagati restano sorpresi, non capiscono di aver fatto qualcosa di eticamente inopportuno anche se forse non propriamente illegale».


Ancora la stessa domanda: come ci si pone dinanzi a questa realtà, che unisce “conflitto di interessi” e illegalità, alla luce soprattutto del suo essere diffusa in tutto il nostro sistema “democratico”, dalla cosiddetta destra alla cosiddetta sinistra, dal Presidente della Repubblica (ultimamente accusato di varie truffe e raccomandazioni da Travaglio) al semplice cittadino raccomandato? Si ha davvero la sfacciataggine di considerare Berlusconi l’unica “anomalia”? Soprattutto dopo le varie campagne di Beppe Grillo (per prendere la cosa dal lato più ridanciano), non sarà difficile rintracciare il numero ed anche i nomi dei parlamentari (ma non ci si deve limitare a quella ristretta cerchia) indagati e condannati, dal 1945 ad oggi, e fra l’altro notare come vengano tranquillamente rieletti più volte (tanto per fare un altro esempio, è dovuta passare su tutti i media, per venire subito accantonata, la notizia delle case comprate a prezzi stracciati, grazie alla mafia politica, da molti protagonisti della politica italiana; oppure, il collegamento con la mafia di tantissimi politici della più disparata provenienza è facile indicatore che non è solo una la pecora nera, tanto più se pensiamo come la mafia fu un’importante partner/alleato per gli anglo-americani nella Seconda guerra mondiale). Farne un discorso di parte è davvero riduttivo e disonesto: in questa situazione accanirsi soltanto sulla persona di Berlusconi è un inganno condotto per precisi obiettivi politici.


Legato al controllo dei mass media c’è poi il “problema culturale”: cioè l’accusa rivolta a Berlusconi di aver trasformato l’Italia in una “Repubblica fondata sulle veline”. Questa, fra le varie questioni è quella più ridicola, faziosa ed indicatrice di scarsa intelligenza ed approfondimento. Come se format televisivi mondiali (per esempio “Saranno Famosi” o “Grande Fratello”), diffusi negli Stati Uniti anni ed anni fa, e poi allargatisi a macchia d’olio a tutto il globo cavalcando e, allo stesso tempo, esportando la globalizzazione, siano un progetto berlusconiano. Come se la mercificazione dei corpi delle donne e degli uomini non avvenisse in ogni parte dell’Occidente (sarà per questo che odiano l’Islam?), come se i video trasmessi da tutte le televisioni tipo MTV (che, come abbiamo sottolineato, sono controllate dalle solite quattro multinazionali), non siano l’avanguardia di quella degenerazione culturale che invece in Italia alcuni vorrebbero attribuire al solo Berlusconi; certo quest’ultimo con le sue televisioni cavalca l’onda, e non a caso è un imprenditore interessato perlopiù al profitto, ma non bisogna prendere la cantonata di considerarlo l’unico ed il principale “nemico”, in quanto in questo modo si fa il gioco di chi, nei consigli di amministrazione delle “multinazionali”, vorrebbe continuare a comandarci facendoci pensare ad altro distogliendoci dal vero problema della sovranità. Con una superficialità che sfiora il ridicolo, questi campioni di faziosità, ci tengono a dire che il modello portato avanti da Berlusconi si basa solo sull’immagine, sulla pubblicità: ma cosa dobbiamo pensare allora del battage pubblicitario che ha accompagnato la figura di Barack Obama, dimostratosi poi quello che si sapeva, e cioè un fedele continuatore della politica “imperialista” statunitense? Oppure del campione delle sinistre nostalgiche ovvero J. F. Kennedy? Famoso più per la famiglia stra-miliardaria e per la storia con Marilyn Monroe che per altro (oltre al fatto di essere un bell’uomo, grande qualità per un politico).


Il sistema al quale Berlusconi si conforma e che a sua volta diffonde è certo da rigettare ed è figlio della globalizzazione occidentalizzante; ma proprio per questo, bisogna stare in guardia e non cadere nei tranelli dei dominanti e giudicarlo per quello che è: uno dei tanti aspetti del dominio statunitense sull’Europa, al quale non si oppone minimamente, anzi ne è a sua volta sostegno, la sterile critica al singolo Berlusconi, come se questi fosse responsabile dell’attuale sistema culturale “occidentale”.


Inoltre, le varie critiche nei confronti del capo del PdL, con la scusa della sua “anomalia” da demonizzare, non affrontano mai l’aspetto politico delle varie questioni (che dovrebbe essere quello davvero interessante): così, le critiche alle leggi promulgate dalla sua maggioranza o ai decreti approvati dal suo governo – quelle, ad esempio, sulla magistratura, o quelle relative alla riforma dell’istruzione – vengono estremizzate e rese isteriche a tal punto da ignorarne la valenza politica e glissare sul fatto che lo stesso tipo di scelte (privatizzazioni, flessibilità, precarietà…) era stato compiuto da governi di centro-sinistra (oggi i primi anti-berlusconiani): si pensi alla legge Treu, alla legge Biagi (sul lavoro), alla pessima riforma universitaria di Berlinguer tutta ricopiata dal sistema statunitense! Le stesse accuse rivolte a Berlusconi di essere un “truffatore” e un “corruttore” (di testimoni ecc.), sebbene potrebbero avere un fondamento (e tuttavia le sentenze della Magistratura così cara alla “sinistra” solo quando le fa comodo parlano di “assoluzioni”), tentano di celare le varie illegalità da piccolo cabotaggio cui abbiamo accennato (e tante altre se ne potrebbero citare), da cui non è esente anche certa Magistratura politicizzata (altra bella “anomalia”!).


Siccome di questi tempi è facile sentirsi appioppare (soprattutto da chi, in evidente crisi propositiva) l’etichetta di filo-berlusconiani (con quel che di demonizzazione ne consegue), è opportuno puntualizzare che ciò che qui è in questione non è un “sostegno” a Berlusconi ed alla sua politica, bensì un invito ad approfondire, soprattutto nell’attuale fase politica a nostro avviso cruciale, i grandi temi e le tendenze in atto al di là delle menate sulla “vita privata del premier”. Soprattutto in una situazione in cui sembra si stia creando una spaccatura nell’insignificante dicotomia destra-sinistra, osservando quello che alcuni definiscono lo “scontro FIAT-ENI”: cioè, da un parte l’azienda torinese (sono dimostrate le illegalità avvenute alla sua fondazione, falso in bilancio e aggiotaggio, ma chissà perché si insiste soltanto sulle origini delle proprietà di Berlusconi), che a quanto pare è la testa di ponte degli interessi statunitensi che cercano di accaparrarsi mercati e controllo politico in Europa [5], dall’altra la cordata ENI-GAZPROM (e in questa “l’amicizia” Berlusconi-Putin) interessata a strappare più sovranità possibile al polo nord-americano. La diretta conseguenza di ciò è che coloro che appoggiano, più o meno risolutamente, i progetti politici in contrasto con quelli americani vengono colpiti da campagne propagandistiche “internazionali”, solertemente amplificate da pappagalli nostrani che si profondono in lodi sulla “autorevolezza” di certa stampa d’Oltremanica.


Ripetiamo: al di là del pettegolezzo sulle “diciottenni” o il cicaleccio sul “conflitto di interessi”, è interessante capire, quindi studiare, se davvero le cose, per NOI, si stanno avviando verso nuovi scenari, in modo da essere pronti a comprenderli e, quando possibile, stabilire le necessarie conclusioni. Di certo c’è che l’approccio fanaticamente anti-berlusconiano impedisce di comprendere la realtà in cui viviamo.


Tra le varie accuse al Capo del governo italiano che piovono dalla stampa “internazionale” non poteva mancare quella “fascismo”. Sembrerà strano, ma nell’attuale fase geopolitica questo potrebbe anche essere un ‘complimento’ per Berlusconi in quanto oggi sono considerati “fascisti” Vladimir Putin (ex KGB sovietico), Ahmadinejad (Presidente della Repubblica islamica dell’Iran), Hugo Chavez (socialista bolivarista amico di Castro); ed in un recente passato analoga accusa era stata rivolta a Saddam Hussein e Slobodan Milosevic. Diciamolo chiaramente: l’accusa di “fascismo” colpisce esclusivamente quegli Stati che in un modo o nell’altro hanno creato grane all’Angloamerica [6].


Oggi più che mai è tempo di capire la realtà, anche perché gli strumenti esistono e sono a disposizione di un pubblico che deve solo smetterla di andare dietro a dei venditori di fumo. La perdita di potere della superpotenza americana è senz’altro positiva per noi, che dobbiamo riappropriarci della nostra sovranità, al momento praticamente inesistente, ingabbiata fra istituzioni internazionali globalizzanti (Banca Mondiale e Fondo Monetario su tutte), controllo militare (solo in Italia, oltre 100 basi e installazioni Nato/Usa ci controllano e minacciano con le loro armi) e controllo politico (attraverso una classe dirigente scadente e prona agli interessi stranieri).
Un costante miglioramento nei rapporti fra l’Europa e la Russia, nonché una sempre più interdipendente cooperazione di tutto il continente eurasiatico, è l’unica possibilità che abbiamo per cercare di determinare dei cambiamenti sostanziali nella nostra epoca, che non vogliamo diventi “il Nuovo secolo americano”: tutto quello che ci porta fuori da questa logica sovranista, distogliendoci agitando falsi problemi, è da rigettare decisamente.


***


Solo una postilla: il primo giugno 2009 il “Times”, giornale del magnate Murdoch, pubblica un fortissimo attacco personale al premier Berlusconi titolato “cade la maschera del clown”; vale la pena sottolineare, a modo di conferma del precedente articolo, le immani proprietà di Rupert Murdoch, che con la sua “News Corporations” controlla centinaia di media fra giornali, canali televisivi , radio, case editrici, ed è la più grande azienda nel mondo del settore. In Italia, soprattutto per via della televisione satellitare SKY è in netta concorrenza con le televisioni targate Mediaset del solito Berlusconi (non sarà per caso interessato anche a quello, oltre alle direttive angloamericane?) ; fra un tycoon di livello mondiale, conservatore, globalizzatore più di ogni altro come Murdoch, ed il capitalista compaesano Berlusconi, per chi parteggeranno (ma poi si deve per forza?) i nostri concittadini? Ed i soliti anti berlusconiani? Non c’è bisogno di fare ulteriori commenti, se non per smentire le parole di risposta dello stesso Berlusconi all’articolo: si è lamentato affermando che le parole del “Times” sono state imboccate dalla sinistra al magnate inglese, ma la realtà, ben più triste, è che è proprio il supercapitalista, globalizzatore Murdoch ad essere la fonte delle idee di una sinistra morente.


***


[1] Fonte: www.effedieffe.com in “Chi comanda i media” e “Ancora sul controllo dei media”, rispettivamente del 22/06/2005 e del 28/07/2005)


[2] Per rintracciare anche per queste aziende le varie proprietà, rimandiamo agli articoli citati nella precedente nota.


[3] Cfr. “Intervista a Daniele Scalea”, www.eurasia-rivista.org.


[4] In un articolo intitolato “la plutocrazia piemontese”, Gramsci nel 1925 scriveva su “L’Unità”: “Il trinomio Agnelli-Gualino-Ponti, col complesso di forze economiche rappresentate – la Fiat, la Snia viscosa, la Sip – dirige la più potente organizzazione capitalistica che esista in Italia. […] questa potentissima coalizione finanziario-industriale è naturalmente anche una potentissima macchina politica. La politica serve a creare le condizioni favorevoli per la prosperità delle speculazioni, e le speculazioni riuscite forniscono i milioni necessari per alimentare e mantenere l’influenza politica”.


[5] Per seguire queste evoluzioni è utile leggere il blog www.ripensaremarx.splinder.com, ma le stesse concezioni sono state rilanciate anche da un giornale “berlusconiano” ed “istituzionale” come “Libero”. Inoltre sono confermate dalle dichiarazioni di Tremonti secondo cui “la partita è fra governi” e da quelle di Marchionne che, augurandosi “che la partita sia economica e non politica”, conferma di essere spaventato (come i suoi padroni americani) da accordi politici Europa-Russia.


[6] Cfr. http://www.cpeurasia.org/?read=7479

Maggio 2009 Cpeurasia

L’equivoco del “razzismo”

di Matteo Pistilli e Luca Rossi. La xenofobia filo-americana e le similitudini destra-sinistra riguardo il tema immigrazione.


In tempi di crisi, economica e non, in cima all’ordine del giorno vi è il “pericolo razzismo”. Sia coloro che muovono il j’accuse contro un presunto ritorno alle “Leggi razziali” promulgate nel ’38, sia coloro che inneggiano alla “difesa etnica”, convergono nella centralità del fattore “appartenenza etnica” nei rapporti sociali. Questa convergenza è perfettamente integrata nel prospettiva dello “scontro di civiltà”, teorizzata in ambienti della “intellighenzia” statunitense e funzionale all’espansione dell’area economico-politica egemonizzata dagli Stati Uniti. Dai recenti fatti di cronaca si può constatare che il fenomeno su cui si consumano ettolitri di inchiostro e ore di noiosissime trasmissioni, in realtà non è specchio di un pregiudizio di carattere razziale, ma un genere di xenofobia fisiologica nel sistema occidentale imperniato su una visione del mondo materialista, nel quale si usa come criterio di giudizio nei confronti delle persone l’esteriorità (“indossa il chador o no?”; “Porta la minigonna o è coperta sino alle caviglie?”) che esprimerebbe la presunta “integrazione” e la connessa posizione sociale.

Prendiamo come esempio un’aggressione avvenuta a Roma da parte di alcuni italiani nei confronti di un africano, il quale non ha subito insulti e percosse per il fatto di essere straniero, ma per lo status di “morto di fame” che non consentirebbe a quest’ultimo di possedere l’auto alla “moda” (anche questo gli è stato ululato contro), a basso consumo e in grado di correre follemente sulla strada provinciale per poi stamparsi puntualmente contro un palo della luce o un albero. Individui infastiditi dalla presenza di uomini e donne che non raggiungono gli standard di benessere economico e di “stile di vita” dell’Europa “occidentale”, quindi da disprezzare, odiare, perché non rientrano nei parametri culturali imposti dalle multinazionali. Tutto è riconducibile al paradigma di civilizzazione occidentale (di matrice americana) che nega a priori gli altri modelli, non li assorbe né li integra, semplicemente li distrugge (o con me o contro di me!).

Esemplare la vittoria nella popolare trasmissione “Il Grande Fratello” conseguita da un ragazzo di etnia Rom, grazie al televoto (1 euro ogni sms, mica scemi eh…) di un numero consistente di italioti, per lo più giovani, gli stessi contro cui si scagliano i media, sì, quelli che bruciano il barbone, insultano lo zingaro, deridono la ragazza col velo. Magia! Il Rom con la polo, educato e innamorato viene premiato perché si è “rinnovato”: non è più come quelli che vedi al semaforo o davanti ai supermercati, è “come noi”! Qui la razza o l’etnia c’entra poco o nulla, poiché se fosse così, rimarrebbe ciò che è, uno zingaro, perciò verrebbe escluso, punto e basta. Nella società-delirio del melting pot, se sei bravo ad uniformarti, ad essere come la massa d’ignavi che popolano discoteche, vestono griffato e mangiano porcherie, puoi essere accettato e diventare famoso (non importa la tua identità, ci sarà sempre un giornalista pronto a mostrare all’opinione pubblica come sei “civile”, “occidentale”), sennò finisci nel girone infernale degli incolti, retrogradi, barbari, reazionari, fascisti, comunisti ecc. Dov’è quindi la “società multirazziale”? Solo nei discorsi pubblici delle autorità (!?) politiche e nella retorica dei media. È eterea. Non esiste alcun interesse a realizzarla, sennò perché si è garantito l’ingresso a milioni di persone? Forse per “preservarne l’identità”? No! È solo altra carne da macello, nelle fabbriche, nei cantieri, come cavie per prodotti chimici. Per favorirne l’inclusione è necessario alimentare la xenofobia, anch’essa artificiale (come il succo d’arancia 20% di frutta), con un messaggio chiaro: “Sei entrato nel mio territorio, qui comanda Zio Sam, lascia perdere la tua cultura e la tua lingua, diventa come me, sarai un perfetto “cittadino del mondo”, però continua a proliferare, ho bisogno di incrementare le nascite, perché l’italiano ha optato per l’etnocidio. L’Italia (quella sulla cartina geografica, non la Patria) ha bisogno di poveri senza diritti che facciano i lavori che i datori di lavoro vogliono pagare sempre meno, cancellando dignità ed etica (alcuni lavori sono fatti da immigrati proprio perché costretti ad accettare livelli di vita ai margini della sopravvivenza). Capisci? Tu non sei altro che una voce di bilancio, una cifra da addizionare o sottrarre, puoi servire sino a quando rientri nel quadro, sennò sei fuori. Lascia perdere l’indignazione degli intellettuali, lo sdegno della comunità internazionale, lo scalpore dell’opinione pubblica… la realtà sta nel puro interesse economico e nel perpetuare l’egemonia degli Usa sulla tua terra”.

È dunque chiaro come i discorsi degli attori politici americanizzati si equivalgano anche quando sembrano in contrasto reciproco: proprio in questi giorni il Presidente del Consiglio Berlusconi, spalleggiato dalla Lega Nord, si dice “contrario alla società multirazziale”. Ma quale “società multirazziale”? Ci sembra utile ripetere che quella che ci viene propinata come tale, altro non è che una società monoculturale, tutta uniformata dallo stile di vita Usa (neanche bisogna citare le esperienze personali che Berlusconi incarna, per esempio, con la squadra di calcio dell’AC Milan, piena di stranieri di ogni provenienza, tutti uniformati dalle logiche dell’intrattenimento) [1].

Dello stesso tenore, ma dal versante cosiddetto opposto, sono i concetti avallati dalle “sinistre”: l’immigrazione per esse è necessaria per “coprire posti di lavoro” e per darci i figli che “non si fanno più”, ed il motivo è tutto “culturale” visto che gli immigrati sono più poveri. Allora, in definitiva, cosa ci dicono le “sinistre”? Che per “preservare il nostro stile di vita” abbiamo bisogno di masse di sfruttati! Ma lasciamo la parola direttamente a Benjamin Barber, ex consigliere di Clinton, politologo della “democrazia partecipativa” e della “interdipendenza”, un vero e proprio campione delle “sinistre” mondiali che sull’Unità dell’11 maggio ha rilasciato un’intervista a G. Bertinetto per difendere l’immigrazione e che è stato ripreso con grandi elogi addirittura nell’editoriale del giornale: “La logica dell’immigrazione è economica.[…] L’economia globale richiede una forza lavoro mobile. […] Non è vero poi che portino via il posto ai già residenti. Vengono a svolgere i lavori offerti dal mercato”.

Appunto, il “mercato”. C’è da aggiungere altro?

Matteo Pistilli – Luca Rossi maggio 2009 Cpeurasia

[1] Luca Rossi, Realizzare la società multirazziale come risposta al melting pot: http://www.cpeurasia.eu/532/realizzare-la-societa-multirazziale-come-risposta-al-melting-pot

lunedì

La riforma sanitaria di Barack Obama

Dopo l’elezione come presidente degli Stati Uniti di Barack Obama ed i continui elogi che gli vengono rivolti a 360 gradi da tutta l’arena politica mondiale, potrebbe essere utile soffermarci a riflettere brevemente sulla tanto famosa riforma sanitaria americana. Grazie a questa in molti trovano la conferma che Obama è davvero una ventata di novità, che è la speranza di tutta l’umanità e via dicendo; tutto in linea con la costruzione del personaggio Barack Obama presentato come l’ennesima salvezza targata USA. Ma se lasciamo correre l’aggressione mediatica e ci fermiamo a ragionare su questa riforma sanitaria, in realtà le conclusioni devono essere ben diverse da quelle comunemente accompagnate da felicitazioni, elogi e speranze. Per ora l’unico provvedimento preso dal congresso è l’allargamento della previdenza sociale gratuita per 4 milioni di minori poveri. Ovviamente si è fatto passare questo provvedimento come salvifico, ma se andiamo a vedere bene, 4 milioni di cittadini Usa equivale all’1,3% della popolazione; per farsi un’idea la stessa percentuale in Italia riguarderebbe circa 600000 persone (senza badare al fatto che facendo la percentuale soltanto fra la popolazione dei minori la cifra sarebbe ancora minore). Detto questo è ovviamente positivo che qualche povero cristo in più possa avere la possibilità di curarsi, però dovrebbe far pensare che la potenza guida mondiale, la superpotenza che espande il proprio controllo militare e la supremazia culturale su tutto il globo (e particolarmente sul nostro continente eurasiatico) deve fare cosi tanta fatica per garantire cure a bambini poveri; anche perché questa misura è passata al congresso con molti problemi avendo avuto quasi la metà dei voti contro. In quasi tutto il mondo le cure sono garantite a tutti i cittadini, ma negli Usa, il centro del potere politico, economico, culturale che vorrebbero imporci (continuare a imporci per sempre), si fanno aspri dibattiti per decidere se dare o non dare assistenza sanitaria a un numero limitato di bambini poveri!!! Per non parlare degli scontri che stanno avvenendo per il prosieguo della riforma – che sono trasversali – e non riguardano come si potrebbe immaginare democratici contro repubblicani (e questo a riprova che la mentalità e la cultura americana sono salde e granitiche in tutto il sistema politico yankee). E qui la cosa si fa ancora più interessante perché in realtà la logica che sottintende le possibili misure è tutta economica. L’impoverimento di gran parte della popolazione americana, infatti, ha comportato l’impossibilità per molti di permettersi un’assicurazione sanitaria (costa migliaia di dollari all’anno) e quindi la diminuzione di polizze assicurative ha comportato un innalzamento dei prezzi di queste, con conseguente spirale negativa che ripropone questo schema all’infinito. Ciò mina le basi di quella grande risorsa economica e finanziaria che sono appunto le assicurazioni. Per questo motivo, l’amministrazione Obama ha pensato bene di abbassare i prezzi delle assicurazioni (in questo consiste la riforma), riportarle al limite per cui quella spirale negativa possa fermarsi; è la stessa logica che utilizzano le finanziarie per prestare soldi ai malcapitati clienti: tassi di interesse altissimi, ma appena sotto la soglia oltre la quale il cliente non accetterebbe il prestito. Il sistema sanitario, vale la pena sottolinearlo, non diverrebbe pubblico, come in Europa, bensì rimarrebbe privato, comportando vere e proprie tragedie umane ed economiche al momento di incappare in una malattia. Questo è il sistema sanitario americano, questo è il sistema della potenza globale americana. Non sarebbe ora di rendersene conto e ripensare le genuflessioni nei confronti di chi aspira a governare il mondo intero? Ovviamente, se la riforma sull’un percento dei bambini o l’altra potranno dare una mano a qualche (s)fortunato americano, non possiamo che esserne umanamente contenti e soprattutto non compete a noi europei andare ad intromettersi nell’amministrazione degli Stati Uniti d’America; ma allora perché gli Stati Uniti d’America invece si intromettono nella nostra vita propinandoci il loro sistema di sviluppo, l’occupazione militare (più di 100 basi Nato-Usa solo sul territorio italiano), pilotando le scelte politiche? E’ evidente che, per esempio nel sistema della sanità, si stiano portando avanti privatizzazioni selvagge e si cominci a parlare anche da noi di assicurazioni private; insomma si sta procedendo verso un sistema sanitario (ma questo anche in tutti gli altri settori) simile a quello americano. Ciò è anche colpa della classe dirigente italiana ed europea tutta intenta a magnificare il dominio degli Usa sul mondo intero e poco propensa a fare davvero gli interessi dei propri cittadini. Eppure avremmo i mezzi, gli spazi, le possibilità di auto-governarci, portando avanti la cooperazione europea ed eurasiatica, così da salvaguardare la cultura che ancora (per poco) ci distingue da quella americana. Questo dobbiamo tenere a mente quando i nostri politici parlano; dobbiamo renderci conto se il sistema che ci vogliono importare è positivo oppure no, se per quanto ci riguarda è in realtà un ritorno al passato, alla povertà, alla guerra di tutti contro tutti. Come si può elevare a sistema mondiale (oltre al fatto che un sistema uguale per tutte le culture così diverse è per forza negativo!) una cultura, come quella americana, che non garantisce neanche ai propri cittadini le cure mediche necessarie per vivere in tranquillità e sicurezza? Questo vorremmo sapere da chi, eletto da noi, oppure nominato direttamente dai poteri forti e quindi inamovibile (banchieri e soci), continua a propinarci la solita velenosa minestra.

Matteo Pistilli // 12 maggio 2009 - Cpeurasia

Obama e l’Iran: una “mano tesa” poco amichevole

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, in questi giorni è salito agli onori della cronaca dopo aver spedito, in occasione del capodanno persiano, un “messaggio d’auguri” alle diverse popolazioni interessate da questa ricorrenza. In tale messaggio, egli si è rivolto soprattutto alla popolazione iraniana con parole che hanno fatto il giro del mondo e sono state riprese da tutti i media; in un breve intervento di tre minuti, agli abitanti della Repubblica Islamica ha detto di scegliere bene quale sarà il loro futuro, poiché gli Stati Uniti sono disponibili a “tendere la mano” all’Iran.


Ora, la cosa incredibile della questione, è che tali parole siano state accolte come una “grande novità” e considerate espressione dalla smisurata “bontà” che il presidente Obama pare promanare.


In realtà, per chi riflette e non si ferma alle impressioni diffuse dai media, è evidente che considerare una “novità” questa posizione degli Stati Uniti, utilizzare parole di giubilo e tutta la glorificazione messa in campo questi giorni siano l’ennesima costruzione propagandistica per camuffare i veri intenti degli Stati Uniti.


Infatti, quello che il presidente Obama dice nella dichiarazione è che nel caso l’Iran rinunci ad investire sull’energia nucleare, nel caso si pieghi alle direttive degli Stati Uniti, allora questi ultimi sarebbero disposti a guardare alla Repubblica Islamica “amichevolmente”. Tutto questo nella lingua americanista è tradotto: “E quel posto (nella “comunità delle nazioni”) non può essere raggiunto con il terrore e con le armi, ma con genuine azioni di pace”.


Ora cosa c’è di nuovo in tutto questo? Gli Stati Uniti continuano a voler proibire all’Iran di sviluppare l’energia nucleare (alla quale ha sacrosanto diritto), continuano a tenere l’Iran sotto la morsa delle sanzioni, continuano a tenere i capitali iraniani bloccati ecc. L’unica vera novità che si riscontra è l’aumento della pressione propagandistica, al servizio di quella geopolitica. Infatti chi oggi nell’analisi geopolitica si ferma a considerare soltanto gli elementi militari, economici e politici (che sono pur sempre importantissimi), commette un grandissimo errore di sottovalutazione di tutti quegli aspetti immateriali che assumono un eguale livello di importanza; infatti nell’analisi degli elementi della geopolitica oggi si distingue giustamente “hard power” (gli aspetti più materiali) e “soft power”, che riguarda soprattutto il potere di controllo dei mezzi di comunicazione di massa con l’obiettivo di elevare se stessi nella considerazione internazionale, attraverso “la conquista dei cuori e dell’anima delle popolazioni”. Com’è facilmente immaginabile, oggi gli elementi di “soft power” sono quasi esclusivamente monopolio americano, e l’Amministrazione Obama si è distinta proprio per l’utilizzazione efficiente di tutti questi metodi. Vendere se stessi, creare aspettative, rendere appetibile il modello americano (che prelude al controllo americano) è l’imperativo dell’amministrazione democratica (1).


Ma in realtà non dovrebbe essere così difficile capire quali sono gli obiettivi americani se, addirittura in un’intervista fatta dal quotidiano ‘obamista’ “L’Unità” allo scrittore iraniano (che vive in Italia) Hamid Ziarati, quest’ultimo dice: “Se il regime stringerà la mano che Obama porge, finirà in frantumi!”. Ovviamente costoro considerano lo Stato sovrano della Rep. Islamica dell’Iran un pericolo (per screditarlo lo chiamano “regime”), e guardano agli Stati Uniti con speranza ed alle parole di Obama con gioia, in quanto vi riconoscono giustamente una astuta mossa per colpire Teheran. È tutto qui il fulcro della questione: se si ritiene positivo che l’Iran debba continuare ad essere uno Stato sovrano e debba continuare a prendere liberamente le proprie scelte, allora le parole di Obama dovrebbero almeno spaventare; se invece consideriamo positivo il controllo statunitense sull’Iran (e per estensione su tutto il globo come vorrebbero) allora gioiamo pure per le parole dell’Amministrazione americana! L’importante è la chiarezza delle idee.


Barack Obama, oltre a mandare questo tipo di messaggi, ha fatto anche di più: parlando direttamente alla popolazione iraniana, infatti, è entrato ufficialmente nella campagna elettorale di quel Paese, dicendo agli iraniani che se dovessero scegliere qualcosa di contrario agli interessi americani se ne potrebbero presto pentire…


In definitiva possiamo dire che, Obama o no, non è cambiato nulla a livello di interessi geopolitici dell’America, ma con questa Amministrazione si è attuato un cambio di strategia, più rivolta al lato “soft power” e alla demonizzazione del nemico, facendolo passare per colui che “proprio non vuole scendere a patti”, che “vuole la guerra ed il terrore”, quando invece è proprio chi, pur essendo aldilà dell’Oceano, vuole dominare l’area mediorientale ed eurasiatica!


Senza contare che dietro l’elaborazione geopolitica della nuova Amministrazione c’è niente di meno che Zbigniew Brzezinski, del quale pare che Obama sia una creazione (2), il quale da sempre, in linea con gli scopi secolari della geopolitica americana, vede come obiettivo degli interessi Usa quello di indebolire la Russia e i collegamenti fra gli spazi eurasiatici, creando delle aree perno controllate dagli Stati Uniti e delle quali la più importante sarebbe proprio l’Iran. Non è il caso di delineare l’elaborazione geostrategica di Brzezinski, che si può trovare nei suoi numerosi saggi ed articoli (3). Quello che ci preme mettere in luce è come l’Iran rivesta una grandissima importanza per gli interessi di dominio statunitensi nel continente eurasiatico e che quindi ogni mossa americana va letta in questo contesto. Il fatto che l’unico commento da parte israeliana alla questione sia stato “Non ci interessa, sono questioni di politica interna degli Stati Uniti”, fa capire che non c’è stato nessun di cambiamento di sorta e che il progetto yankee di un “Grande Medio Oriente”, che ha come paladino nella regione il Sionismo, è ancora all’ordine del giorno.


Chi giubila per le parole di Obama, o considera positiva l’intromissione degli Usa in ogni angolo del mondo, oppure sta prendendo un grosso abbaglio, dal quale speriamo si possa ravvedere presto.

(1) La differenza con l’Amministrazione Bush riguarda perciò esclusivamente il tipo di strategie scelte per far avanzare la “frontiera” americana.

(2) Vedere l’intervista a Webster Tarpley realizzata da “Luogocomune”, rintracciabile su http://politicaonline.ipbfree.com/index.php?showtopic=1759

(3) Fra tutti, “La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana”, tradotto in italiano per Longanesi.

 24 marzo 2009 - Matteo Pistilli - CPEurasia

“Nessuno potrà mai isolare l’Iran”. Intervista all’Ambasciatore iraniano in Italia M. A. Hosseini

Venerdì 25 giugno, Matteo Pistilli e il direttore Tiberio Graziani hanno incontrato per Eurasia Sua Eccellenza l’Ambasciatore della Repubblica Islamica dell’Iràn presso lo Stato italiano, Seyyed Mohammad Alì Hosseini.
Nel corso dell’incontro, l’Ambasciatore ha espresso il giudizio di Teheran sulle recenti sanzioni ONU ed esposto il ruolo della Repubblica Islamica nell’ambito regionale e mondiale con particolare riferimento ai rapporti che intrattiene con la Turchia, la Cina, la Russia e il Brasile.

Su iniziativa degli USA, la Repubblica islamica dell’Iràn è stata recentemente sottoposta a nuove sanzioni da parte dell’ONU. A queste sanzioni hanno aderito anche la Cina e la Russia, due paesi generalmente non ostili all’Iràn. Come valuta Teheran la nuova posizione internazionale di Mosca e Pechino? Quali gli effetti a medio e lungo termine sulle relazioni tra questi due paesi e la Repubblica dell’Iran?

Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso.
Innanzitutto dovrei fare delle precisazioni in merito all’ultima risoluzione 1929 del Consiglio di Sicurezza. L’interferenza del Consiglio di Sicurezza nella questione nucleare iraniana sin da subito è stata un’azione illegittima e in contrasto con lo statuto delle Nazioni Unite. Il compito principale del Consiglio di Sicurezza è quello di occuparsi della pace e della sicurezza qualora dovessero subire delle minacce. Però il programma nucleare iraniano è un programma pacifico, civile, da sempre monitorato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica o attraverso i sopralluoghi dei suoi ispettori, oppure e contemporaneamente, attraverso le istallazioni di telecamere a circuito chiuso in tutti i luoghi dei siti iraniani. Sempre l’Agenzia ed i suoi ispettori sin dal primo momento e in più di 20 occasioni, hanno pubblicato dei rapporti in cui chiariscono che il programma nucleare iraniano non ha nessuna deviazione verso un uso militare. Questo significa che il programma nucleare iraniano – sottolineo pacifico, sotto controllo dell’Agenzia, con la certificazione della stessa Agenzia dell’inesistenza di alcuna violazione delle regole e dei regolamenti internazionali – non può essere considerato una minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionale. Perciò qualsiasi interferenza del Consiglio di Sicurezza riguardo al nostro programma nucleare civile e pacifico è da considerarsi illegale, faziosa, priva di valore. Pertanto le risoluzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza per imporre delle sanzioni alla Repubblica Islamica dell’Iràn sono da considerarsi in contrasto con lo statuto delle stesse Nazioni Unite, perché queste risoluzioni mirano a privare gli iraniani dai loro diritti naturali. Sappiamo tutti che lo statuto dell’Onu non permette al Consiglio di agire in modo tale da privare le nazioni ed i popoli dai loro diritti naturali. Lo stesso Consiglio di Sicurezza non agisce invece laddove esistono effettivamente delle minacce reali e concrete, a livello sia regionale sia internazionale, nei confronti della pace e della sicurezza. L’ultimo esempio è la mancanza di una adeguata reazione nei confronti del barbaro massacro perpetrato dal regime sionista in acque internazionali, a danno di pacifisti della Flottiglia pacifista che portava aiuti umanitari alla Striscia di Gaza. Oppure la mancanza di una seria ed adeguata reazione da parte de Consiglio di Sicurezza per togliere l’assedio alla Striscia di Gaza che da più di tre anni sta privando la popolazione della Striscia stessa dei più elementari diritti naturali, ossia avere il cibo, l’acqua, l’assistenza sanitaria e così via. Purtroppo il silenzio, l’indifferenza e la debolezza del Consiglio di Sicurezza di fronte a questi crimini permette la perpetuazione della situazione oggi esistente. Ancora a questo proposito, prendiamo atto di quella che è un’azione frettolosa e sconsiderata degli Stati Uniti d’America per imporre tali sanzioni. Perché gli statunitensi hanno agito in questa direzione proprio in corrispondenza dell’accordo di Teheran, ossia l’accordo trilaterale fra l’Iràn, il Brasile e la Turchia sulla questione nucleare. La dichiarazione dell’accordo di Teheran è stata resa pubblica in data 17 maggio 2010 dopo sette mesi di negoziati; abbiamo visto il Brasile e la Turchia adoperarsi veramente con molta serietà e, di conseguenza, anche l’Iran ha dimostrato la necessaria flessibilità. Questo è stato un passo da parte iraniana per creare fiducia, anche a dimostrazione della possibilità di una costruttiva interazione fra le parti. La cosa interessante è anche che lo stesso presidente nordamericano aveva chiesto ai presidenti del Brasile e della Turchia di cercare d’arrivare ad un risultato positivo. Ma subito dopo che l’accordo è stato reso pubblico abbiamo osservato gli americani accelerare l’approvazione della risoluzione 1929 che non vuole fare altro che rafforzare le sanzioni contro il popolo iraniano. Qui siamo di fronte ad una politica ipocrita nei confronti della questione nucleare iraniana. Per quanto riguarda Cina e Russia devo dire che la Repubblica Islamica dell’Iran ha ampi rapporti con ambedue i paesi, in base ai reciproci interessi; naturalmente l’ampiezza di queste relazioni tra l’Iran e la Cina e tra l’Iran e la Russia comporta anche delle aspettative da parte iraniana; la maggior parte di quelle riguardanti il programma nucleare iraniano sono rimaste disattese . Un esempio ne è il fatto che i due paesi, la Cina e la Russia, hanno approvato l’ultima risoluzione nei confronti dell’Iran. Questa decisione ha scosso in qualche modo l’opinione pubblica iraniana ed ha messo sotto pressione alcune autorità del nostro paese. Ciò nonostante noi pensiamo che per questi due paesi sia ancora aperta la porta; ovviamente l’auspicio che noi formuliamo è che si adoperino per correggere l’errore appena compiuto.

Dunque Teheran lascia uno spiraglio per Mosca e Pechino. Pochi giorni fa (il 21 giugno), il sito del Ministero degli Esteri russo ha rilasciato una dichiarazione ufficiale per criticare la decisione degli USA e d’alcuni paesi europei d’inasprire unilateralmente le sanzioni contro l’Iràn. Queste sanzioni sono focalizzate sui cosiddetti “beni a duplice uso”; Mosca ha mostrato delusione per le ulteriori sanzioni contro l’Iràn, approvate da Washington, che vanno ben oltre il già esistente regime di sanzioni Onu contro Teheran. Questa dichiarazione ufficiale del Ministero degli Esteri russo a mio avviso si inserisce proprio in quella strategia di rettifica e di correzione di cui parlava prima, o sbaglio?

Quello che ho capito ascoltando le sue parole è che i russi sono d’accordo con le sanzioni approvate nel quadro del Consiglio di Sicurezza ma sono contrari ad un loro ampliamento da parte degli USA e dei paesi europei. Però noi riteniamo che la risoluzione del Consiglio nei confronti del programma nucleare pacifico iraniano sia una decisione ingiustificata. Però nello stesso tempo quanto lei mi leggeva dimostra la contrarietà di Mosca ad un inasprimento unilaterale delle decisioni del Consiglio voluto sia dagli Stati Uniti d’America sia da alcuni paesi europei. Perciò, da questo punto di vista, posso dire che sì, si tratta di una presa di posizione positiva.

I rapporti economici tra l’Iràn e l’Italia sono sempre stati molto buoni. La Farnesina, tuttavia, negli ultimi tempi, allineandosi alle direttive di Washington volte ad isolare Teheran, ha espresso regolarmente posizioni antiraniane: come valuta il governo iraniano l’atteggiamento di Roma?

Alcune posizioni espresse da parte di talune autorità italiane sono posizioni poco amichevoli e non corrispondenti alla realtà ed allo spirito di amicizia che ha da sempre caratterizzato i rapporti fra l’Iràn e l’Italia. Sono dell’idea che una maggiore conoscenza della realtà iraniana, ovvero un maggiore realismo, aiuterebbero a correggere incomprensioni di questo genere. Le relazioni economiche fra l’Iràn e l’Italia sono da sempre buone e sono improntate ad alcuni fattori, per esempio gli interessi reciproci, le collaborazioni in molti settori, la complementarietà delle due economie. Si fondano anche sul fatto che l’Iràn è un mercato di 70 milioni di consumatori e insieme ai suoi paesi confinanti raggiunge quota 300 milioni: è interesse degli imprenditori italiani trovare sempre nuovi mercati, ed è interesse dell’Iràn potersi avvalere delle tecnologie italiane. Questi ed altri fattori, da sempre, costituiscono la cornice ed i pilastri su cui si fondano i nostri rapporti commerciali. Vorrei comunque sottolineare che l’Iràn, data la sua posizione unica, le sue dimensioni, non è un Paese che qualcuno riuscirà mai ad isolare. Parliamo di un Paese e di una nazione con 7 mila anni di storia alle spalle; un Paese che oltre ad avere la fortuna di un così ricco ed enorme bagaglio di cultura e civiltà ha anche la fortuna di avere il futuro costituito dai suoi giovani; un Paese altrettanto fortunato perché ricco di molte ricchezze naturali; un Paese con sbocco sul mare aperto, che oramai ha raggiunto e superato l’autosufficienza in molti settori industriali; un Paese che può essere considerato capofila nella propria regione. Pertanto vedete che gli sforzi trentennali di Washington per isolare l’Iràn e per imporgli le sanzioni hanno fino a questo momento sortito degli effetti assolutamente contrari. Basti leggere più approfonditamente i sondaggi di opinione (non parlo tanto di quelli condotti a livello internazionale, quanto di quelli riguardanti le popolazioni mediorientali) per capire quali sono i Paesi più amati e quali sono i Paesi più odiati dall’opinione pubblica nella nostra regione; forse finalmente si capirà quali sono gli Stati realmente isolati in questo momento.

Recentemente alcuni quotidiani legati al governo italiano, hanno espressamente evidenziato il coinvolgimento di Israele, in particolare attraverso il Mossad, nell’addestramento e finanziamento della guerriglia curda nel nord dell’Iraq con lo scopo di destabilizzare le confinanti regioni curde in Turchia e Iran. L’attacco curdo alla base di Iskenderun, avvenuto in contemporanea con l’assalto alle navi della Flottiglia verso Gaza, sembra essere un avvertimento e una azione di depistaggio per impedire la reazione turca all’azione di guerra compiuta da Israele ai danni dei cittadini e delle navi turche. La volontà di combattere il terrorismo curdo e gli indipendentismi della regione possono costituire un punto di intesa e collaborazione tra Turchia e Iran?

La Repubblica Islamica d’Iràn e la Turchia hanno preoccupazioni ed interessi comuni nella regione. Ciò ha comportato una collaborazione molto efficace tra l’Iràn e la Turchia per contrastare il terrorismo. Gruppi terroristici sono costituiti ed appoggiati da alcune potenze al di fuori della nostra regione. Questi stessi gruppi sono attivi nelle zone di frontiera fra Iràn, Turchia e Iràq e stanno cercando di compiere attività di spionaggio e destabilizzanti. Il regime sionista da sempre ha avuto una parte attiva nell’incoraggiare gruppi terroristici a creare instabilità nella regione. Ma nello stesso tempo, come dicevo poc’anzi, le buone collaborazioni tra i Paesi della regione hanno impedito finora a questi gruppi terroristici ed ai loro sostenitori di avere successo.

Le nuove relazioni tra l’Iràn e la Turchia sembrano prefigurare un nuovo orientamento geopolitico del quadrante vicino e mediorientale. Considerando che la Turchia è un paese membro della NATO, ritiene che lo “strappo” di Ankara avrà ripercussioni nell’ambito dell’alleanza atlantica, e se sì quali?

Per quanto concerne la seconda parte della sua domanda, dovrebbero essere gli amici turchi a rispondere, perché sono loro a conoscere le logiche interne all’alleanza atlantica. Però debbo dire che gli ultimi avvenimenti a livello regionale e internazionale fanno pensare che forse questo secolo vedrà la nascita di nuove potenze. Ci saranno grandi cambiamenti a livello internazionale e il mondo finalmente uscirà dall’unipolarismo. Tra le potenze emergenti possiamo nominare appunto l’Iràn, la Turchia, il Brasile, l’India; questo significa che ci sarà un nuovo Medio Oriente dove il ruolo e l’influenza delle potenze egemoniche esterne sarà ridotto al minimo, ed il ruolo dei paesi islamici nella regione sarà rafforzato molto di più.

Una delle questioni più controverse all’ordine del giorno è quella della consegna all’Iràn dei sistemi di difesa aerea S-300 da parte della Russia. Negli ultimi mesi si sono susseguite voci che alternativamente confermano o smentiscono il congelamento dell’accordo, anche se dopo l’ultimo giro di sanzioni sembra che la Russia propenda verso la decisione di non consegnare all’Iran questa importante tecnologia militare che può scongiurare l’attacco da parte di Israele. Come considera questa marcia indietro della Russia, unita al voto favorevole alle nuove sanzioni contro l’Iran? Ci saranno ripercussioni nei futuri rapporti tra Iran e Russia?

Effettivamente ci sono state delle dichiarazioni contrastanti da parte delle autorità russe: i ritardi accennati hanno di volta in volta avuto motivazioni politiche o tecniche. Malgrado ciò, la collaborazione tra i due paesi in generale avviene nel quadro di normali relazioni. Se fosse vero che i russi avessero deciso di non consegnare all’Iràn questo sistema S-300, tale decisione sarebbe una violazione rispetto agli accordi presi precedentemente tra i due Paesi. Ricordiamo che il prestigio, il credito degli Stati deriva dalla loro fedeltà agli impegni contratti con gli altri. Perciò sicuramente una eventuale inadempienza da parte russa nei confronti di un accordo di così vecchia data susciterebbe la grande sfiducia degli iraniani nei confronti di Mosca, e noi non lo auspichiamo. Vorrei però precisare che se l’Iràn non avrà questo sistema di difesa non subirà, credetemi, grandi danni, perché abbiamo la nostra industria di difesa molto sviluppata ed i nostri tecnici giovani ma molto bravi sono al lavoro; siamo in grado di produrre quello di cui abbiamo bisogno per assicurarci la nostra difesa. Nonostante le ingiuste sanzioni imposte al nostro Paese in questi anni l’Iràn non ha mai cessato di andare avanti anche sulla strada dello sviluppo scientifico e tecnologico. E come dicevo prima siamo veramente autosufficienti, possiamo pensare ai nostri diversi fabbisogni nei vari settori senza dover dipendere dall’estero. Comunque ci auguriamo che i russi siano adempienti verso l’accordo già firmato e non permettano che i rapporti tra i due Paesi vengano danneggiati da episodi come questo.

L’Iràn è un paese osservatore dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS). Al recente vertice dell’Organizzazione, tenutosi a Tashkent il 10 e 11 giugno, Teheran ha inviato una sua delegazione. Qual è l’attuale ruolo dell’Iràn nell’Organizzazione eurasiatica?

L’Iràn ha partecipato a questo vertice con una delegazione iraniana capeggiata dal nostro Ministro degli Esteri.

In tutte le consultazioni avviate fino a questo momento, i membri della conferenza di Shanghai sono concordi sull’importanza del ruolo della presenza iraniana. Voi sapete che la conferenza di Shanghai ha come priorità gli obiettivi della lotta al narcotraffico, della lotta al crimine organizzato, nonché lo sviluppo economico. E proprio qui vediamo come ci siano molteplici interessi e preoccupazioni comuni tra i Paesi della regione. Sicuramente questi interessi e queste preoccupazioni porteranno ad una sempre maggiore convergenza tra i membri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Comunque l’Iràn è un Paese in prima linea in quegli obiettivi primari dell’Organizzazione, perciò la presenza iraniana alla conferenza sicuramente aiuterà altri membri ad un più veloce raggiungimento degli obiettivi previsti.

Mohammad Alì Hosseini è ambasciatore della Repubblica Islamica d’Iràn in Italia.

L’intervista – a cura di Tiberio Graziani, Antonio Grego e Matteo Pistilli – è stata rilasciata venerdì 25 giugno 2010, presso l’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iràn in Italia.

Okinawa: la “chiave di volta” del Pacifico

Continua ancora, nell’isola di Okinawa, la mobilitazione contro la presenza della base della marina americana sita a Futenma: dopo gli incontri fra il nuovo primo ministro giapponese Naoto Kan ed il governatore dell’isola Hirokazu Nakaima la situazione non ha trovato soluzione; da una parte il governatore ha sottolineato l’impotenza delle proprie richieste lamentando come la volontà della popolazione giapponese non possa per adesso essere messa in pratica, dall’altra il governo ha riconfermato di voler attuare l’accordo stipulato con Washington e procedere ad una semplice ri-localizzazione nel nord dell’isola della base e non ad una sua chiusura come chiesto dai cittadini. Quindi il presidente dell’Assemblea della prefettura di Okinawa, Zenshin Takamine, lunedì 21 giugno ha consegnato una lettera – indirizzata al presidente Obama – all’ambasciatore statunitense in Giappone John Roos: nella missiva sottolinea come il 90% della popolazione dell’isola sia contraria al progetto di spostamento della base verso la regione costiera di Henoko ed invita il presidente Usa a visitare il Memorial Park della città di Itoman così da poter leggere i 14.000 nomi di militari americani che hanno perso la vita ad Okinawa durante la seconda guerra mondiale. Takamine sottolinea come il 75% delle basi militari americane presenti in Giappone siano concentrate proprio nella sua isola e sono responsabili di numerosi problemi, non solo connessi ad una evidente sovranità limitata determinata dalla presenza di militari stranieri, ma anche legati all’inquinamento ambientale, allo scarso sviluppo dovuto all’onore economico che le basi comportano per la popolazione ed alla convivenza serena per i cittadini. Nello stesso giorno il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha invece avuto modo di scambiare opinioni con il Ministro degli esteri giapponese Katsuya Okada (uno dei ministri confermati dopo le dimissioni dell’ex premier Hatoyama): durante i colloqui sono state ribadite le intenzioni governative sulla ri-localizzazione della base e per convincere i nipponici gli Usa hanno di nuovo agitato lo spauracchio nord-coreano, prendendo a pretesto l’affondamento misterioso della nave sud-coreana “Cheonan” (1).

“The Keystone of the Pacific”

La questione relativa alle basi militari statunitensi ad Okinawa è centrale per vari aspetti; soprattutto per l’ingente dispiegamento di forze Usa in Giappone in generale e sull’isola in particolare. L’isola (in realtà insieme di isole) appartenente all’arcipelago delle Ryukyu (antico nome della stessa) è sita in una posizione strategica importantissima, al largo di Taiwan e del Mare orientale cinese, tale da essere considerata “la chiave di volta del Pacifico” dal Dipartimento di Stato Usa. Da tale postazione gli Stati Uniti riescono a controllare oltre alla Cina continentale e Taiwan, anche la penisola coreana, gli arcipelaghi dell’oceano pacifico, le Filippine, la penisola indocinese consolidando in questo modo la propria superiorità marittima nell’area. Taipei, Shanghai, Hong Kong, Seoul, Manila e Tokyo sono tutte situate a 1500 km di raggio da Okinawa che è quindi equidistante fra le diverse zone del Pacifico; se per arrivare in Corea del Sud dagli Stati Uniti si impiegano 16 ore di volo e da Guam 5, partendo da Okinawa è questione di sole 2 ore e chiaramente gli stessi vantaggi riguardano la navigazione.

Sin dalla rinascita moderna del Giappone, nei primi anni del ventesimo secolo, la marina nipponica considerava il principale potenziale nemico gli Stati Uniti così che Tokio nel disegnare quella che chiamò la “Sfera di Co-prosperità della Grande Asia orientale”, mirava a presentarsi come il campione della lotta contro l’imperialismo “occidentale” che aveva soggiogato sino ad allora l’Asia intera; interessante notare, nel delineare le sfere di interesse delle varie potenze, come il Giappone non sarà ufficialmente in guerra con l’Urss se non nel 1945 praticamente a guerra finita. Proprio nella stretta finale della guerra mondiale ad est, nell’aprile 1945 le forze anglo-americane convergeranno tutte sull’isola di Okinawa (dove ci fu una delle più cruente battaglie della storia), scelta per il valore strategico come base per la futura invasione del Giappone e, come vedremo, per il controllo dell’intero oceano Pacifico negli anni a venire. Dopo aver annichilito l’impero del Sol Levante con la forza attraverso l’esercito e soprattutto le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, gli alleati, più precisamente gli Stati Uniti vista la divisione del mondo decisa a metà degli anni quaranta, instaurarono nell’arcipelago nipponico un vero e proprio protettorato, durato ufficialmente sette anni, durante il quale le istituzioni, la cultura, la politica giapponesi sono state totalmente riscritte. Non è una provocazione dire che sono state riscritte in inglese, vista per esempio la nuova Costituzione giapponese fatta redigere dal generale MacArthur (Capo supremo per le potenze alleate) – praticamente vicerè nel Giappone ricostruito – proprio in inglese e poi tradotta ed adottata senza che i giapponesi potessero discuterla. Ma l’occupazione americana produsse anche altre riforme come la fondamentale smilitarizzazione del Paese, l’epurazione politica dei personaggi sgraditi, lo scioglimento di organizzazioni patriottiche, l’imposizione di un sistema politico democratico che rinunciava “per sempre” alla guerra ed al mantenimento di “forze di terra, di mare e dell’aria”. Insieme a ciò vennero addirittura decisi a Washington i programmi educativi e culturali giapponesi e la ridefinizione dell’economia nell’arcipelago. Il Giappone tornerà ad essere un Paese formalmente indipendente soltanto nel 1952, dopo la firma e l’entrata in vigore del trattato di Pace di San Francisco, che sanciva le riforme fatte sino ad allora dopo la “resa incondizionata” del 1945 e smembrava l’impero giapponese, definendo i confini definitivi ed ufficiali dell’arcipelago e ponendo in questo modo le isole Ryukyo, fra cui Okinawa, sotto amministrazione statunitense, con la rinuncia formale di Tokio a rivendicare tali territori. Nello stesso giorno della firma del trattato di pace fu firmato un accordo bilaterale di sicurezza con gli Stati Uniti (revisionato nel 1960) che garantiva la presenza di basi e forze militari Usa in Giappone e garantiva altresì il loro utilizzo per mantenere, con linguaggio orwelliano, la pace e la sicurezza internazionale nell’area.

La guerra di Corea e successivamente quella del Vietnam, fondamentali dal punto di vista Usa per il controllo dell’Asia orientale ed il contenimento dell’Unione Sovietica nel quadro della guerra fredda, rendevano quindi centrale il rapporto privilegiato fra Giappone e Usa ed, in particolare, “l’amministrazione fiduciaria” posta da questi ultimi sull’isola di Okinawa, che si trovava nella situazione, unica del suo genere, di essere la sola colonia costituita dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per moderare tale situazione evidentemente in contraddizione con la politica dell’Onu, il segretario di Stato Dulles cominciò a parlare di “residua sovranità” del Giappone sull’isola, e, sebbene questa formula fosse interpretata come la possibilità di ricondurre un giorno queste isole sotto la sovranità giapponese, era sin troppo chiaro che fin quando non si sarebbe proceduto ad una normalizzazione dell’area (soprattutto dopo l’inizio della guerra in Vietnam) questa sarebbe stata una pia illusione; anche perché i giapponesi ponevano teoricamente delle limitazioni all’utilizzo delle basi americane poste in territorio sovrano, limitazioni che chiamate “livello della terra ferma” prevedevano la messa al bando ed il libero uso delle armi nucleari. Comunque nel 1969 il problema venne risolto con un accordo (firmato nel 1970 ed entrato in vigore nel 1972) che riportava Okinawa sotto sovranità giapponese ed assoggettava teoricamente le basi americane alle limitazioni previste; in realtà oggi sappiamo, perché citati dall’ex Premier Hatoyama, della presenza di accordi segreti che sebbene mai venuti alla luce, di certo garantivano e garantiscono ancora la continuità della sovranità americana in Giappone ed a Okinawa in special modo per quanto riguarda le scelte di carattere militare (2).

Ancora oggi ci sono in Giappone all’incirca 90 strutture militari statunitensi, per un totale di 3.130.000 metri quadrati, il 75% dei quali soltanto ad Okinawa. Queste basi, fino ad oggi facilitate nella presenza dal grande sforzo economico della popolazione giapponese (3) (sono anche esenti da affitto) sono concentrate in poche aree precise: 37 ad Okinawa (coprono il 18% del suolo dell’isola), 15 a Kanagawa, 11 a Nagasaki, 7 a Tokyo. Su 52.000 soldati americani la metà stazionano a Okinawa. Questa ha avuto un ruolo fondamentale rispettivamente nella guerra di Corea, nella guerra del Vietnam, nella guerra del Golfo, nelle invasioni in Iraq ed Afganistan; quindi rimane ancora oggi un fulcro del sistema di espansione mondiale degli Stati Uniti, dopo essere stata l’avamposto per la dottrina del containment nell’arco asiatico. Infatti la vicinanza a diversi possibili focolai regionali di crisi rende centrale l’importanza della presenza statunitense nell’isola, anche per la rapidità di intervento.

La messa in discussione della presenza statunitense non è quindi una notizia di poco conto e spiega bene perché su questo problema sia caduto il Premier Hatoyama (4) e perché dagli Stati Uniti sia arrivata una forte reazione diplomatica a difesa della insindacabilità della presenza dei propri militari. L’altro arco fondamentale nel vecchio containment americano, quello occidentale, è anch’esso oggi sottoposto a frizioni tanto da far parlare di “una guerra a bassa intensità” (5) per destabilizzare la Turchia (altro Stato ospitante numerose basi Usa/Nato) ed impedire un suo protagonismo nell’area. Tutto questo conferma quanto la dottrina del contenimento dell’Urss in realtà non fosse che un faccia del classico obiettivo strategico statunitense, ossia l’occupazione e l’accerchiamento della massa continentale eurasiatica, per impedirne l’unità considerata pericolosa per gli interessi anglo-americani. La volontà di parte della classe dirigente attuale giapponese di un ripensamento della relazione speciale con gli Usa è figlia anche dell’emergere di nuove potenze e può essere da esempio per le classi dirigenti europee; come il Giappone oggi emergente, considera fondamentale una coesistenza con il gigante cinese (oggi come teoricamente ai tempi della sfera di Co-prosperità, dall’eloquente motto “l’Asia agli asiatici”) e punta quindi ad una maggiore sovranità legata anche al benessere ed alla difesa degli interessi dei propri cittadini, così in Italia, Francia, Germania per citare alcuni Stati in cui sono presenti numerose basi militari nord-americane che di conseguenza mantengono questi territori in una posizione di sovranità limitata, si potrebbe prendere coscienza di una situazione mai affrontata con coraggio.

*Matteo Pistilli

Note:

1) La “normalizzazione” del Giappone: reazione degli Usa verso i Paesi “emergenti” (Matteo Pistilli) http://www.eurasia-rivista.org/4512/la-normalizzazione-del-giappone-reazione-degli-usa-verso-i-paesi-emergenti

2) Giappone: desecretati i patti clandestini imposti dagli USA (Matteo Pistilli) http://www.eurasia-rivista.org/3072/giappone-desecretati-i-patti-clandestini-imposti-dagli-usa

3) Il Giappone è lo Stato che più di ogni altro mette a bilancio fondi per sostenere basi controllate da stranieri; questo è uno degli aspetti intollerabili per la popolazione giapponese, ma ci si potrebbe porre il problema anche per esempio riguardo l’Italia, vista l’ingente presenza di basi militari sulla penisola e la probabile presenza di trattati segreti che la regola.

4) Per ricostruire cronologicamente la “questione Okinawa” dai contributi presenti su “Eurasia”:

Febbraio 2010 – Giappone: Desecretati i patti clandestini imposti dagli USA (Matteo Pistilli) http://www.eurasia-rivista.org/3072/giappone-desecretati-i-patti-clandestini-imposti-dagli-usa

Volontà, immaginazione, senso comune: ristrutturare l’alleanza nippo-statunitense (Jitsuru Terashima) http://www.eurasia-rivista.org/3846/volonta-immaginazione-senso-comune-ristruttura-lalleanza-nippo-statunitense

Maggio 2010 – Okinawa in piazza contro la base USA (Matteo Pistilli) http://www.eurasia-rivista.org/3960/okinawa-in-piazza-contro-la-base-usa

Giugno 2010 – La “normalizzazione” del Giappone: reazione degli Usa verso i Paesi “emergenti” (Matteo Pistilli) http://www.eurasia-rivista.org/4512/la-normalizzazione-del-giappone-reazione-degli-usa-verso-i-paesi-emergenti

5) “Strategia della tensione” contro la Turchia, (Aldo Braccio) http://www.eurasia-rivista.org/4706/strategia-della-tensione-contro-la-turchia

Matteo Pistilli :::: 23 giugno, 2010 - Eurasia

La “normalizzazione” del Giappone: reazione degli Usa verso i Paesi “emergenti”

Il 4 giugno 2010, infine, il premier giapponese Hatoyama ha presentato le dimissioni e nell’arcipelago nipponico si è proceduto alla nomina del sostituto, Naoto Kan, e di nuovi 11 ministri.

La parabola dell’ex premier si è quindi conclusa dissipando in poco tempo l’enorme appoggio popolare che ne aveva salutato l’elezione otto mesi orsono: il principale obiettivo che aveva reso possibile quella vittoria era l’impegno di chiudere la base militare di Okinawa e ripensare i rapporti con Washington divenuti intollerabili, per peso economico e sudditanza politica, per la popolazione giapponese.

Nel febbraio il premier Yukio Hatoyama aveva promosso una commissione d’inchiesta per indagare sui patti segreti firmati da Giappone e Usa dopo la fine della seconda guerra mondiale – con l’obiettivo di ripensare la sclerotica politica estera (1) – ed in aprile una grande manifestazione effettuata proprio ad Okinawa aveva ricordato al Governo democratico la promessa fatta nel 2009 esprimendo altresì la contrarietà ad un semplice spostamento della base americana in un’altra zona dell’isola (2). L’impossibilità di raggiungere questo obiettivo ha portato alle dimissioni del primo ministro ed alle dichiarazioni del suo sostituto, che ha subito assicurato gli Usa sulla volontà giapponese di rispettare i patti con gli Stati Uniti e quindi di essere favorevole alla ri-localizzazione della base di Futenma. Infatti a fine maggio l’ormai ex premier aveva dovuto annunciare quella che è ritenuta una vittoria per l’amministrazione Obama, ossia il semplice spostamento della base al nord dell’isola, provocando nuove manifestazioni di disapprovazione e gli ormai classici “Usa go home” lo avevano accolto nel suo secondo viaggio sull’isola.

Ha influenzato la vicenda, oltre alla classica debolezza con cui il Giappone si rapporta agli Usa, anche un controverso incidente avvenuto nella notte del 26 marzo davanti alle acque territoriali della Corea del Nord: le agenzie occidentali hanno riportato l’affondamento di una corvetta sud-coreana ad opera di un sottomarino di Pyongyang: il problema però è che quella stessa notte era in corso una esercitazione militare navale congiunta Usa-Corea del Sud, e sembra dubbio – anche ad una firma del Washington Post (3) – che durante un simile dispiegamento di forze (quasi una provocazione allo stato nord-coreano, vista la vicinanza al suo spazio), un sottomarino possa essersi avvicinato senza essere notato dagli avanzati radar ed abbia potuto abbattere una corvetta fra l’altro utilizzando un missile tedesco (La Corea del Nord non utilizza quel tipo di armamenti). Comunque sia è evidente come il ventilato pericolo nord-coreano risponda alla logica dall’amministrazione statunitense e venga utilizzato come spauracchio nelle relazioni con il Giappone (e nell’area), non essendoci più “l’impero del male” sovietico con cui giustificare il dispiegamento delle proprie basi militari.

Eppure il dispiegamento di basi è ancora oggi necessario dal punto di vista degli Stati Uniti: l’espansionismo è la caratteristica principale della politica estera Usa e risponde alla funzione di difendere il sistema “occidentale” nato dalla seconda guerra mondiale – formato da tutto l’apparato “nord-atlantico” e “universale” basti pensare a FMI, Banca Mondiale, WTO - contro le sfide che gli altri “attori egemoni” Cina, India, Russia gli stanno ponendo, mettendo in discussione l’unipolarismo.

Insieme alla crisi interna ed al troppo esteso dispiegamento di forze “imperialiste”, a mettere in pericolo l’egemonia nord-americana sono i rapporti con i Paesi che il direttore della rivista “Eurasia” Tiberio Graziani, annovera fra gli “attori emergenti”(4) e fra i quali per quanto riguarda il continente eurasiatico rientrano Giappone e Turchia. Ora pare evidente come ci troviamo proprio nel momento in cui questi due Stati sono al centro del ciclone dei rapporti internazionali; le intenzioni di allontanarsi da un troppo stringente controllo della potenza di riferimento, ormai fuori tempo negli squilibri multipolari che si stanno affacciando all’orizzonte, ha portato tali Stati a porre in essere scelte autonome provocando così la reazione degli Stati Uniti. Il cambio di governo giapponese rientra quindi in una tentata “normalizzazione”, che nella evoluzione delle attuali relazioni internazionali non potrà essere definitiva; allo stesso modo ci si potrebbe aspettare una “normalizzazione” nei rapporti con la Turchia, che sta subendo, specie dopo il dialogo con l’Iran, una destabilizzazione interna che comunque viene da lontano; Ankara, infatti, dopo essere stata un baluardo della Nato vicino al cuore dell’Eurasia, si sta smarcando da tale ruolo e punta a diventare un potenza regionale fondamentale nei rapporti fra Europa, Asia e vicino oriente.

Note:

1) http://www.eurasia-rivista.org/3072/giappone-desecretati-i-patti-clandestini-imposti-dagli-usa

2) http://www.eurasia-rivista.org/3960/okinawa-in-piazza-contro-la-base-usa

3) http://blog.washingtonpost.com/spy-talk/2010/05/asian_analysts_question_korea_torpedo_incident.html?hpid=news-col-blog

4) “La categoria degli attori emergenti raggruppa, invece, quelle nazioni che, valorizzando particolari atout geopolitici o geostrategici, cercano di smarcarsi dalle decisioni imposte loro da uno o da più membri del ristretto club del primo tipo. Mentre lo scopo immediato degli emergenti consiste nella ricerca di una autonomia regionale e, dunque, nell’uscita dalla sfera d’influenza della potenza egemone, da attuarsi principalmente mediante articolate intese ed alleanze regionali, transregionali ed extra-continentali, quello strategico è costituto dalla partecipazione attiva al gioco delle decisioni regionali e persino mondiali”

http://www.eurasia-rivista.org/3861/la-russia-chiave-di-volta-del-sistema-multipolare

Matteo Pistilli :::: 8 giugno, 2010 - Eurasia