lunedì

La riforma sanitaria di Barack Obama

Dopo l’elezione come presidente degli Stati Uniti di Barack Obama ed i continui elogi che gli vengono rivolti a 360 gradi da tutta l’arena politica mondiale, potrebbe essere utile soffermarci a riflettere brevemente sulla tanto famosa riforma sanitaria americana. Grazie a questa in molti trovano la conferma che Obama è davvero una ventata di novità, che è la speranza di tutta l’umanità e via dicendo; tutto in linea con la costruzione del personaggio Barack Obama presentato come l’ennesima salvezza targata USA. Ma se lasciamo correre l’aggressione mediatica e ci fermiamo a ragionare su questa riforma sanitaria, in realtà le conclusioni devono essere ben diverse da quelle comunemente accompagnate da felicitazioni, elogi e speranze. Per ora l’unico provvedimento preso dal congresso è l’allargamento della previdenza sociale gratuita per 4 milioni di minori poveri. Ovviamente si è fatto passare questo provvedimento come salvifico, ma se andiamo a vedere bene, 4 milioni di cittadini Usa equivale all’1,3% della popolazione; per farsi un’idea la stessa percentuale in Italia riguarderebbe circa 600000 persone (senza badare al fatto che facendo la percentuale soltanto fra la popolazione dei minori la cifra sarebbe ancora minore). Detto questo è ovviamente positivo che qualche povero cristo in più possa avere la possibilità di curarsi, però dovrebbe far pensare che la potenza guida mondiale, la superpotenza che espande il proprio controllo militare e la supremazia culturale su tutto il globo (e particolarmente sul nostro continente eurasiatico) deve fare cosi tanta fatica per garantire cure a bambini poveri; anche perché questa misura è passata al congresso con molti problemi avendo avuto quasi la metà dei voti contro. In quasi tutto il mondo le cure sono garantite a tutti i cittadini, ma negli Usa, il centro del potere politico, economico, culturale che vorrebbero imporci (continuare a imporci per sempre), si fanno aspri dibattiti per decidere se dare o non dare assistenza sanitaria a un numero limitato di bambini poveri!!! Per non parlare degli scontri che stanno avvenendo per il prosieguo della riforma – che sono trasversali – e non riguardano come si potrebbe immaginare democratici contro repubblicani (e questo a riprova che la mentalità e la cultura americana sono salde e granitiche in tutto il sistema politico yankee). E qui la cosa si fa ancora più interessante perché in realtà la logica che sottintende le possibili misure è tutta economica. L’impoverimento di gran parte della popolazione americana, infatti, ha comportato l’impossibilità per molti di permettersi un’assicurazione sanitaria (costa migliaia di dollari all’anno) e quindi la diminuzione di polizze assicurative ha comportato un innalzamento dei prezzi di queste, con conseguente spirale negativa che ripropone questo schema all’infinito. Ciò mina le basi di quella grande risorsa economica e finanziaria che sono appunto le assicurazioni. Per questo motivo, l’amministrazione Obama ha pensato bene di abbassare i prezzi delle assicurazioni (in questo consiste la riforma), riportarle al limite per cui quella spirale negativa possa fermarsi; è la stessa logica che utilizzano le finanziarie per prestare soldi ai malcapitati clienti: tassi di interesse altissimi, ma appena sotto la soglia oltre la quale il cliente non accetterebbe il prestito. Il sistema sanitario, vale la pena sottolinearlo, non diverrebbe pubblico, come in Europa, bensì rimarrebbe privato, comportando vere e proprie tragedie umane ed economiche al momento di incappare in una malattia. Questo è il sistema sanitario americano, questo è il sistema della potenza globale americana. Non sarebbe ora di rendersene conto e ripensare le genuflessioni nei confronti di chi aspira a governare il mondo intero? Ovviamente, se la riforma sull’un percento dei bambini o l’altra potranno dare una mano a qualche (s)fortunato americano, non possiamo che esserne umanamente contenti e soprattutto non compete a noi europei andare ad intromettersi nell’amministrazione degli Stati Uniti d’America; ma allora perché gli Stati Uniti d’America invece si intromettono nella nostra vita propinandoci il loro sistema di sviluppo, l’occupazione militare (più di 100 basi Nato-Usa solo sul territorio italiano), pilotando le scelte politiche? E’ evidente che, per esempio nel sistema della sanità, si stiano portando avanti privatizzazioni selvagge e si cominci a parlare anche da noi di assicurazioni private; insomma si sta procedendo verso un sistema sanitario (ma questo anche in tutti gli altri settori) simile a quello americano. Ciò è anche colpa della classe dirigente italiana ed europea tutta intenta a magnificare il dominio degli Usa sul mondo intero e poco propensa a fare davvero gli interessi dei propri cittadini. Eppure avremmo i mezzi, gli spazi, le possibilità di auto-governarci, portando avanti la cooperazione europea ed eurasiatica, così da salvaguardare la cultura che ancora (per poco) ci distingue da quella americana. Questo dobbiamo tenere a mente quando i nostri politici parlano; dobbiamo renderci conto se il sistema che ci vogliono importare è positivo oppure no, se per quanto ci riguarda è in realtà un ritorno al passato, alla povertà, alla guerra di tutti contro tutti. Come si può elevare a sistema mondiale (oltre al fatto che un sistema uguale per tutte le culture così diverse è per forza negativo!) una cultura, come quella americana, che non garantisce neanche ai propri cittadini le cure mediche necessarie per vivere in tranquillità e sicurezza? Questo vorremmo sapere da chi, eletto da noi, oppure nominato direttamente dai poteri forti e quindi inamovibile (banchieri e soci), continua a propinarci la solita velenosa minestra.

Matteo Pistilli // 12 maggio 2009 - Cpeurasia

Obama e l’Iran: una “mano tesa” poco amichevole

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, in questi giorni è salito agli onori della cronaca dopo aver spedito, in occasione del capodanno persiano, un “messaggio d’auguri” alle diverse popolazioni interessate da questa ricorrenza. In tale messaggio, egli si è rivolto soprattutto alla popolazione iraniana con parole che hanno fatto il giro del mondo e sono state riprese da tutti i media; in un breve intervento di tre minuti, agli abitanti della Repubblica Islamica ha detto di scegliere bene quale sarà il loro futuro, poiché gli Stati Uniti sono disponibili a “tendere la mano” all’Iran.


Ora, la cosa incredibile della questione, è che tali parole siano state accolte come una “grande novità” e considerate espressione dalla smisurata “bontà” che il presidente Obama pare promanare.


In realtà, per chi riflette e non si ferma alle impressioni diffuse dai media, è evidente che considerare una “novità” questa posizione degli Stati Uniti, utilizzare parole di giubilo e tutta la glorificazione messa in campo questi giorni siano l’ennesima costruzione propagandistica per camuffare i veri intenti degli Stati Uniti.


Infatti, quello che il presidente Obama dice nella dichiarazione è che nel caso l’Iran rinunci ad investire sull’energia nucleare, nel caso si pieghi alle direttive degli Stati Uniti, allora questi ultimi sarebbero disposti a guardare alla Repubblica Islamica “amichevolmente”. Tutto questo nella lingua americanista è tradotto: “E quel posto (nella “comunità delle nazioni”) non può essere raggiunto con il terrore e con le armi, ma con genuine azioni di pace”.


Ora cosa c’è di nuovo in tutto questo? Gli Stati Uniti continuano a voler proibire all’Iran di sviluppare l’energia nucleare (alla quale ha sacrosanto diritto), continuano a tenere l’Iran sotto la morsa delle sanzioni, continuano a tenere i capitali iraniani bloccati ecc. L’unica vera novità che si riscontra è l’aumento della pressione propagandistica, al servizio di quella geopolitica. Infatti chi oggi nell’analisi geopolitica si ferma a considerare soltanto gli elementi militari, economici e politici (che sono pur sempre importantissimi), commette un grandissimo errore di sottovalutazione di tutti quegli aspetti immateriali che assumono un eguale livello di importanza; infatti nell’analisi degli elementi della geopolitica oggi si distingue giustamente “hard power” (gli aspetti più materiali) e “soft power”, che riguarda soprattutto il potere di controllo dei mezzi di comunicazione di massa con l’obiettivo di elevare se stessi nella considerazione internazionale, attraverso “la conquista dei cuori e dell’anima delle popolazioni”. Com’è facilmente immaginabile, oggi gli elementi di “soft power” sono quasi esclusivamente monopolio americano, e l’Amministrazione Obama si è distinta proprio per l’utilizzazione efficiente di tutti questi metodi. Vendere se stessi, creare aspettative, rendere appetibile il modello americano (che prelude al controllo americano) è l’imperativo dell’amministrazione democratica (1).


Ma in realtà non dovrebbe essere così difficile capire quali sono gli obiettivi americani se, addirittura in un’intervista fatta dal quotidiano ‘obamista’ “L’Unità” allo scrittore iraniano (che vive in Italia) Hamid Ziarati, quest’ultimo dice: “Se il regime stringerà la mano che Obama porge, finirà in frantumi!”. Ovviamente costoro considerano lo Stato sovrano della Rep. Islamica dell’Iran un pericolo (per screditarlo lo chiamano “regime”), e guardano agli Stati Uniti con speranza ed alle parole di Obama con gioia, in quanto vi riconoscono giustamente una astuta mossa per colpire Teheran. È tutto qui il fulcro della questione: se si ritiene positivo che l’Iran debba continuare ad essere uno Stato sovrano e debba continuare a prendere liberamente le proprie scelte, allora le parole di Obama dovrebbero almeno spaventare; se invece consideriamo positivo il controllo statunitense sull’Iran (e per estensione su tutto il globo come vorrebbero) allora gioiamo pure per le parole dell’Amministrazione americana! L’importante è la chiarezza delle idee.


Barack Obama, oltre a mandare questo tipo di messaggi, ha fatto anche di più: parlando direttamente alla popolazione iraniana, infatti, è entrato ufficialmente nella campagna elettorale di quel Paese, dicendo agli iraniani che se dovessero scegliere qualcosa di contrario agli interessi americani se ne potrebbero presto pentire…


In definitiva possiamo dire che, Obama o no, non è cambiato nulla a livello di interessi geopolitici dell’America, ma con questa Amministrazione si è attuato un cambio di strategia, più rivolta al lato “soft power” e alla demonizzazione del nemico, facendolo passare per colui che “proprio non vuole scendere a patti”, che “vuole la guerra ed il terrore”, quando invece è proprio chi, pur essendo aldilà dell’Oceano, vuole dominare l’area mediorientale ed eurasiatica!


Senza contare che dietro l’elaborazione geopolitica della nuova Amministrazione c’è niente di meno che Zbigniew Brzezinski, del quale pare che Obama sia una creazione (2), il quale da sempre, in linea con gli scopi secolari della geopolitica americana, vede come obiettivo degli interessi Usa quello di indebolire la Russia e i collegamenti fra gli spazi eurasiatici, creando delle aree perno controllate dagli Stati Uniti e delle quali la più importante sarebbe proprio l’Iran. Non è il caso di delineare l’elaborazione geostrategica di Brzezinski, che si può trovare nei suoi numerosi saggi ed articoli (3). Quello che ci preme mettere in luce è come l’Iran rivesta una grandissima importanza per gli interessi di dominio statunitensi nel continente eurasiatico e che quindi ogni mossa americana va letta in questo contesto. Il fatto che l’unico commento da parte israeliana alla questione sia stato “Non ci interessa, sono questioni di politica interna degli Stati Uniti”, fa capire che non c’è stato nessun di cambiamento di sorta e che il progetto yankee di un “Grande Medio Oriente”, che ha come paladino nella regione il Sionismo, è ancora all’ordine del giorno.


Chi giubila per le parole di Obama, o considera positiva l’intromissione degli Usa in ogni angolo del mondo, oppure sta prendendo un grosso abbaglio, dal quale speriamo si possa ravvedere presto.

(1) La differenza con l’Amministrazione Bush riguarda perciò esclusivamente il tipo di strategie scelte per far avanzare la “frontiera” americana.

(2) Vedere l’intervista a Webster Tarpley realizzata da “Luogocomune”, rintracciabile su http://politicaonline.ipbfree.com/index.php?showtopic=1759

(3) Fra tutti, “La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana”, tradotto in italiano per Longanesi.

 24 marzo 2009 - Matteo Pistilli - CPEurasia

“Nessuno potrà mai isolare l’Iran”. Intervista all’Ambasciatore iraniano in Italia M. A. Hosseini

Venerdì 25 giugno, Matteo Pistilli e il direttore Tiberio Graziani hanno incontrato per Eurasia Sua Eccellenza l’Ambasciatore della Repubblica Islamica dell’Iràn presso lo Stato italiano, Seyyed Mohammad Alì Hosseini.
Nel corso dell’incontro, l’Ambasciatore ha espresso il giudizio di Teheran sulle recenti sanzioni ONU ed esposto il ruolo della Repubblica Islamica nell’ambito regionale e mondiale con particolare riferimento ai rapporti che intrattiene con la Turchia, la Cina, la Russia e il Brasile.

Su iniziativa degli USA, la Repubblica islamica dell’Iràn è stata recentemente sottoposta a nuove sanzioni da parte dell’ONU. A queste sanzioni hanno aderito anche la Cina e la Russia, due paesi generalmente non ostili all’Iràn. Come valuta Teheran la nuova posizione internazionale di Mosca e Pechino? Quali gli effetti a medio e lungo termine sulle relazioni tra questi due paesi e la Repubblica dell’Iran?

Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso.
Innanzitutto dovrei fare delle precisazioni in merito all’ultima risoluzione 1929 del Consiglio di Sicurezza. L’interferenza del Consiglio di Sicurezza nella questione nucleare iraniana sin da subito è stata un’azione illegittima e in contrasto con lo statuto delle Nazioni Unite. Il compito principale del Consiglio di Sicurezza è quello di occuparsi della pace e della sicurezza qualora dovessero subire delle minacce. Però il programma nucleare iraniano è un programma pacifico, civile, da sempre monitorato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica o attraverso i sopralluoghi dei suoi ispettori, oppure e contemporaneamente, attraverso le istallazioni di telecamere a circuito chiuso in tutti i luoghi dei siti iraniani. Sempre l’Agenzia ed i suoi ispettori sin dal primo momento e in più di 20 occasioni, hanno pubblicato dei rapporti in cui chiariscono che il programma nucleare iraniano non ha nessuna deviazione verso un uso militare. Questo significa che il programma nucleare iraniano – sottolineo pacifico, sotto controllo dell’Agenzia, con la certificazione della stessa Agenzia dell’inesistenza di alcuna violazione delle regole e dei regolamenti internazionali – non può essere considerato una minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionale. Perciò qualsiasi interferenza del Consiglio di Sicurezza riguardo al nostro programma nucleare civile e pacifico è da considerarsi illegale, faziosa, priva di valore. Pertanto le risoluzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza per imporre delle sanzioni alla Repubblica Islamica dell’Iràn sono da considerarsi in contrasto con lo statuto delle stesse Nazioni Unite, perché queste risoluzioni mirano a privare gli iraniani dai loro diritti naturali. Sappiamo tutti che lo statuto dell’Onu non permette al Consiglio di agire in modo tale da privare le nazioni ed i popoli dai loro diritti naturali. Lo stesso Consiglio di Sicurezza non agisce invece laddove esistono effettivamente delle minacce reali e concrete, a livello sia regionale sia internazionale, nei confronti della pace e della sicurezza. L’ultimo esempio è la mancanza di una adeguata reazione nei confronti del barbaro massacro perpetrato dal regime sionista in acque internazionali, a danno di pacifisti della Flottiglia pacifista che portava aiuti umanitari alla Striscia di Gaza. Oppure la mancanza di una seria ed adeguata reazione da parte de Consiglio di Sicurezza per togliere l’assedio alla Striscia di Gaza che da più di tre anni sta privando la popolazione della Striscia stessa dei più elementari diritti naturali, ossia avere il cibo, l’acqua, l’assistenza sanitaria e così via. Purtroppo il silenzio, l’indifferenza e la debolezza del Consiglio di Sicurezza di fronte a questi crimini permette la perpetuazione della situazione oggi esistente. Ancora a questo proposito, prendiamo atto di quella che è un’azione frettolosa e sconsiderata degli Stati Uniti d’America per imporre tali sanzioni. Perché gli statunitensi hanno agito in questa direzione proprio in corrispondenza dell’accordo di Teheran, ossia l’accordo trilaterale fra l’Iràn, il Brasile e la Turchia sulla questione nucleare. La dichiarazione dell’accordo di Teheran è stata resa pubblica in data 17 maggio 2010 dopo sette mesi di negoziati; abbiamo visto il Brasile e la Turchia adoperarsi veramente con molta serietà e, di conseguenza, anche l’Iran ha dimostrato la necessaria flessibilità. Questo è stato un passo da parte iraniana per creare fiducia, anche a dimostrazione della possibilità di una costruttiva interazione fra le parti. La cosa interessante è anche che lo stesso presidente nordamericano aveva chiesto ai presidenti del Brasile e della Turchia di cercare d’arrivare ad un risultato positivo. Ma subito dopo che l’accordo è stato reso pubblico abbiamo osservato gli americani accelerare l’approvazione della risoluzione 1929 che non vuole fare altro che rafforzare le sanzioni contro il popolo iraniano. Qui siamo di fronte ad una politica ipocrita nei confronti della questione nucleare iraniana. Per quanto riguarda Cina e Russia devo dire che la Repubblica Islamica dell’Iran ha ampi rapporti con ambedue i paesi, in base ai reciproci interessi; naturalmente l’ampiezza di queste relazioni tra l’Iran e la Cina e tra l’Iran e la Russia comporta anche delle aspettative da parte iraniana; la maggior parte di quelle riguardanti il programma nucleare iraniano sono rimaste disattese . Un esempio ne è il fatto che i due paesi, la Cina e la Russia, hanno approvato l’ultima risoluzione nei confronti dell’Iran. Questa decisione ha scosso in qualche modo l’opinione pubblica iraniana ed ha messo sotto pressione alcune autorità del nostro paese. Ciò nonostante noi pensiamo che per questi due paesi sia ancora aperta la porta; ovviamente l’auspicio che noi formuliamo è che si adoperino per correggere l’errore appena compiuto.

Dunque Teheran lascia uno spiraglio per Mosca e Pechino. Pochi giorni fa (il 21 giugno), il sito del Ministero degli Esteri russo ha rilasciato una dichiarazione ufficiale per criticare la decisione degli USA e d’alcuni paesi europei d’inasprire unilateralmente le sanzioni contro l’Iràn. Queste sanzioni sono focalizzate sui cosiddetti “beni a duplice uso”; Mosca ha mostrato delusione per le ulteriori sanzioni contro l’Iràn, approvate da Washington, che vanno ben oltre il già esistente regime di sanzioni Onu contro Teheran. Questa dichiarazione ufficiale del Ministero degli Esteri russo a mio avviso si inserisce proprio in quella strategia di rettifica e di correzione di cui parlava prima, o sbaglio?

Quello che ho capito ascoltando le sue parole è che i russi sono d’accordo con le sanzioni approvate nel quadro del Consiglio di Sicurezza ma sono contrari ad un loro ampliamento da parte degli USA e dei paesi europei. Però noi riteniamo che la risoluzione del Consiglio nei confronti del programma nucleare pacifico iraniano sia una decisione ingiustificata. Però nello stesso tempo quanto lei mi leggeva dimostra la contrarietà di Mosca ad un inasprimento unilaterale delle decisioni del Consiglio voluto sia dagli Stati Uniti d’America sia da alcuni paesi europei. Perciò, da questo punto di vista, posso dire che sì, si tratta di una presa di posizione positiva.

I rapporti economici tra l’Iràn e l’Italia sono sempre stati molto buoni. La Farnesina, tuttavia, negli ultimi tempi, allineandosi alle direttive di Washington volte ad isolare Teheran, ha espresso regolarmente posizioni antiraniane: come valuta il governo iraniano l’atteggiamento di Roma?

Alcune posizioni espresse da parte di talune autorità italiane sono posizioni poco amichevoli e non corrispondenti alla realtà ed allo spirito di amicizia che ha da sempre caratterizzato i rapporti fra l’Iràn e l’Italia. Sono dell’idea che una maggiore conoscenza della realtà iraniana, ovvero un maggiore realismo, aiuterebbero a correggere incomprensioni di questo genere. Le relazioni economiche fra l’Iràn e l’Italia sono da sempre buone e sono improntate ad alcuni fattori, per esempio gli interessi reciproci, le collaborazioni in molti settori, la complementarietà delle due economie. Si fondano anche sul fatto che l’Iràn è un mercato di 70 milioni di consumatori e insieme ai suoi paesi confinanti raggiunge quota 300 milioni: è interesse degli imprenditori italiani trovare sempre nuovi mercati, ed è interesse dell’Iràn potersi avvalere delle tecnologie italiane. Questi ed altri fattori, da sempre, costituiscono la cornice ed i pilastri su cui si fondano i nostri rapporti commerciali. Vorrei comunque sottolineare che l’Iràn, data la sua posizione unica, le sue dimensioni, non è un Paese che qualcuno riuscirà mai ad isolare. Parliamo di un Paese e di una nazione con 7 mila anni di storia alle spalle; un Paese che oltre ad avere la fortuna di un così ricco ed enorme bagaglio di cultura e civiltà ha anche la fortuna di avere il futuro costituito dai suoi giovani; un Paese altrettanto fortunato perché ricco di molte ricchezze naturali; un Paese con sbocco sul mare aperto, che oramai ha raggiunto e superato l’autosufficienza in molti settori industriali; un Paese che può essere considerato capofila nella propria regione. Pertanto vedete che gli sforzi trentennali di Washington per isolare l’Iràn e per imporgli le sanzioni hanno fino a questo momento sortito degli effetti assolutamente contrari. Basti leggere più approfonditamente i sondaggi di opinione (non parlo tanto di quelli condotti a livello internazionale, quanto di quelli riguardanti le popolazioni mediorientali) per capire quali sono i Paesi più amati e quali sono i Paesi più odiati dall’opinione pubblica nella nostra regione; forse finalmente si capirà quali sono gli Stati realmente isolati in questo momento.

Recentemente alcuni quotidiani legati al governo italiano, hanno espressamente evidenziato il coinvolgimento di Israele, in particolare attraverso il Mossad, nell’addestramento e finanziamento della guerriglia curda nel nord dell’Iraq con lo scopo di destabilizzare le confinanti regioni curde in Turchia e Iran. L’attacco curdo alla base di Iskenderun, avvenuto in contemporanea con l’assalto alle navi della Flottiglia verso Gaza, sembra essere un avvertimento e una azione di depistaggio per impedire la reazione turca all’azione di guerra compiuta da Israele ai danni dei cittadini e delle navi turche. La volontà di combattere il terrorismo curdo e gli indipendentismi della regione possono costituire un punto di intesa e collaborazione tra Turchia e Iran?

La Repubblica Islamica d’Iràn e la Turchia hanno preoccupazioni ed interessi comuni nella regione. Ciò ha comportato una collaborazione molto efficace tra l’Iràn e la Turchia per contrastare il terrorismo. Gruppi terroristici sono costituiti ed appoggiati da alcune potenze al di fuori della nostra regione. Questi stessi gruppi sono attivi nelle zone di frontiera fra Iràn, Turchia e Iràq e stanno cercando di compiere attività di spionaggio e destabilizzanti. Il regime sionista da sempre ha avuto una parte attiva nell’incoraggiare gruppi terroristici a creare instabilità nella regione. Ma nello stesso tempo, come dicevo poc’anzi, le buone collaborazioni tra i Paesi della regione hanno impedito finora a questi gruppi terroristici ed ai loro sostenitori di avere successo.

Le nuove relazioni tra l’Iràn e la Turchia sembrano prefigurare un nuovo orientamento geopolitico del quadrante vicino e mediorientale. Considerando che la Turchia è un paese membro della NATO, ritiene che lo “strappo” di Ankara avrà ripercussioni nell’ambito dell’alleanza atlantica, e se sì quali?

Per quanto concerne la seconda parte della sua domanda, dovrebbero essere gli amici turchi a rispondere, perché sono loro a conoscere le logiche interne all’alleanza atlantica. Però debbo dire che gli ultimi avvenimenti a livello regionale e internazionale fanno pensare che forse questo secolo vedrà la nascita di nuove potenze. Ci saranno grandi cambiamenti a livello internazionale e il mondo finalmente uscirà dall’unipolarismo. Tra le potenze emergenti possiamo nominare appunto l’Iràn, la Turchia, il Brasile, l’India; questo significa che ci sarà un nuovo Medio Oriente dove il ruolo e l’influenza delle potenze egemoniche esterne sarà ridotto al minimo, ed il ruolo dei paesi islamici nella regione sarà rafforzato molto di più.

Una delle questioni più controverse all’ordine del giorno è quella della consegna all’Iràn dei sistemi di difesa aerea S-300 da parte della Russia. Negli ultimi mesi si sono susseguite voci che alternativamente confermano o smentiscono il congelamento dell’accordo, anche se dopo l’ultimo giro di sanzioni sembra che la Russia propenda verso la decisione di non consegnare all’Iran questa importante tecnologia militare che può scongiurare l’attacco da parte di Israele. Come considera questa marcia indietro della Russia, unita al voto favorevole alle nuove sanzioni contro l’Iran? Ci saranno ripercussioni nei futuri rapporti tra Iran e Russia?

Effettivamente ci sono state delle dichiarazioni contrastanti da parte delle autorità russe: i ritardi accennati hanno di volta in volta avuto motivazioni politiche o tecniche. Malgrado ciò, la collaborazione tra i due paesi in generale avviene nel quadro di normali relazioni. Se fosse vero che i russi avessero deciso di non consegnare all’Iràn questo sistema S-300, tale decisione sarebbe una violazione rispetto agli accordi presi precedentemente tra i due Paesi. Ricordiamo che il prestigio, il credito degli Stati deriva dalla loro fedeltà agli impegni contratti con gli altri. Perciò sicuramente una eventuale inadempienza da parte russa nei confronti di un accordo di così vecchia data susciterebbe la grande sfiducia degli iraniani nei confronti di Mosca, e noi non lo auspichiamo. Vorrei però precisare che se l’Iràn non avrà questo sistema di difesa non subirà, credetemi, grandi danni, perché abbiamo la nostra industria di difesa molto sviluppata ed i nostri tecnici giovani ma molto bravi sono al lavoro; siamo in grado di produrre quello di cui abbiamo bisogno per assicurarci la nostra difesa. Nonostante le ingiuste sanzioni imposte al nostro Paese in questi anni l’Iràn non ha mai cessato di andare avanti anche sulla strada dello sviluppo scientifico e tecnologico. E come dicevo prima siamo veramente autosufficienti, possiamo pensare ai nostri diversi fabbisogni nei vari settori senza dover dipendere dall’estero. Comunque ci auguriamo che i russi siano adempienti verso l’accordo già firmato e non permettano che i rapporti tra i due Paesi vengano danneggiati da episodi come questo.

L’Iràn è un paese osservatore dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS). Al recente vertice dell’Organizzazione, tenutosi a Tashkent il 10 e 11 giugno, Teheran ha inviato una sua delegazione. Qual è l’attuale ruolo dell’Iràn nell’Organizzazione eurasiatica?

L’Iràn ha partecipato a questo vertice con una delegazione iraniana capeggiata dal nostro Ministro degli Esteri.

In tutte le consultazioni avviate fino a questo momento, i membri della conferenza di Shanghai sono concordi sull’importanza del ruolo della presenza iraniana. Voi sapete che la conferenza di Shanghai ha come priorità gli obiettivi della lotta al narcotraffico, della lotta al crimine organizzato, nonché lo sviluppo economico. E proprio qui vediamo come ci siano molteplici interessi e preoccupazioni comuni tra i Paesi della regione. Sicuramente questi interessi e queste preoccupazioni porteranno ad una sempre maggiore convergenza tra i membri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Comunque l’Iràn è un Paese in prima linea in quegli obiettivi primari dell’Organizzazione, perciò la presenza iraniana alla conferenza sicuramente aiuterà altri membri ad un più veloce raggiungimento degli obiettivi previsti.

Mohammad Alì Hosseini è ambasciatore della Repubblica Islamica d’Iràn in Italia.

L’intervista – a cura di Tiberio Graziani, Antonio Grego e Matteo Pistilli – è stata rilasciata venerdì 25 giugno 2010, presso l’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iràn in Italia.

Okinawa: la “chiave di volta” del Pacifico

Continua ancora, nell’isola di Okinawa, la mobilitazione contro la presenza della base della marina americana sita a Futenma: dopo gli incontri fra il nuovo primo ministro giapponese Naoto Kan ed il governatore dell’isola Hirokazu Nakaima la situazione non ha trovato soluzione; da una parte il governatore ha sottolineato l’impotenza delle proprie richieste lamentando come la volontà della popolazione giapponese non possa per adesso essere messa in pratica, dall’altra il governo ha riconfermato di voler attuare l’accordo stipulato con Washington e procedere ad una semplice ri-localizzazione nel nord dell’isola della base e non ad una sua chiusura come chiesto dai cittadini. Quindi il presidente dell’Assemblea della prefettura di Okinawa, Zenshin Takamine, lunedì 21 giugno ha consegnato una lettera – indirizzata al presidente Obama – all’ambasciatore statunitense in Giappone John Roos: nella missiva sottolinea come il 90% della popolazione dell’isola sia contraria al progetto di spostamento della base verso la regione costiera di Henoko ed invita il presidente Usa a visitare il Memorial Park della città di Itoman così da poter leggere i 14.000 nomi di militari americani che hanno perso la vita ad Okinawa durante la seconda guerra mondiale. Takamine sottolinea come il 75% delle basi militari americane presenti in Giappone siano concentrate proprio nella sua isola e sono responsabili di numerosi problemi, non solo connessi ad una evidente sovranità limitata determinata dalla presenza di militari stranieri, ma anche legati all’inquinamento ambientale, allo scarso sviluppo dovuto all’onore economico che le basi comportano per la popolazione ed alla convivenza serena per i cittadini. Nello stesso giorno il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha invece avuto modo di scambiare opinioni con il Ministro degli esteri giapponese Katsuya Okada (uno dei ministri confermati dopo le dimissioni dell’ex premier Hatoyama): durante i colloqui sono state ribadite le intenzioni governative sulla ri-localizzazione della base e per convincere i nipponici gli Usa hanno di nuovo agitato lo spauracchio nord-coreano, prendendo a pretesto l’affondamento misterioso della nave sud-coreana “Cheonan” (1).

“The Keystone of the Pacific”

La questione relativa alle basi militari statunitensi ad Okinawa è centrale per vari aspetti; soprattutto per l’ingente dispiegamento di forze Usa in Giappone in generale e sull’isola in particolare. L’isola (in realtà insieme di isole) appartenente all’arcipelago delle Ryukyu (antico nome della stessa) è sita in una posizione strategica importantissima, al largo di Taiwan e del Mare orientale cinese, tale da essere considerata “la chiave di volta del Pacifico” dal Dipartimento di Stato Usa. Da tale postazione gli Stati Uniti riescono a controllare oltre alla Cina continentale e Taiwan, anche la penisola coreana, gli arcipelaghi dell’oceano pacifico, le Filippine, la penisola indocinese consolidando in questo modo la propria superiorità marittima nell’area. Taipei, Shanghai, Hong Kong, Seoul, Manila e Tokyo sono tutte situate a 1500 km di raggio da Okinawa che è quindi equidistante fra le diverse zone del Pacifico; se per arrivare in Corea del Sud dagli Stati Uniti si impiegano 16 ore di volo e da Guam 5, partendo da Okinawa è questione di sole 2 ore e chiaramente gli stessi vantaggi riguardano la navigazione.

Sin dalla rinascita moderna del Giappone, nei primi anni del ventesimo secolo, la marina nipponica considerava il principale potenziale nemico gli Stati Uniti così che Tokio nel disegnare quella che chiamò la “Sfera di Co-prosperità della Grande Asia orientale”, mirava a presentarsi come il campione della lotta contro l’imperialismo “occidentale” che aveva soggiogato sino ad allora l’Asia intera; interessante notare, nel delineare le sfere di interesse delle varie potenze, come il Giappone non sarà ufficialmente in guerra con l’Urss se non nel 1945 praticamente a guerra finita. Proprio nella stretta finale della guerra mondiale ad est, nell’aprile 1945 le forze anglo-americane convergeranno tutte sull’isola di Okinawa (dove ci fu una delle più cruente battaglie della storia), scelta per il valore strategico come base per la futura invasione del Giappone e, come vedremo, per il controllo dell’intero oceano Pacifico negli anni a venire. Dopo aver annichilito l’impero del Sol Levante con la forza attraverso l’esercito e soprattutto le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, gli alleati, più precisamente gli Stati Uniti vista la divisione del mondo decisa a metà degli anni quaranta, instaurarono nell’arcipelago nipponico un vero e proprio protettorato, durato ufficialmente sette anni, durante il quale le istituzioni, la cultura, la politica giapponesi sono state totalmente riscritte. Non è una provocazione dire che sono state riscritte in inglese, vista per esempio la nuova Costituzione giapponese fatta redigere dal generale MacArthur (Capo supremo per le potenze alleate) – praticamente vicerè nel Giappone ricostruito – proprio in inglese e poi tradotta ed adottata senza che i giapponesi potessero discuterla. Ma l’occupazione americana produsse anche altre riforme come la fondamentale smilitarizzazione del Paese, l’epurazione politica dei personaggi sgraditi, lo scioglimento di organizzazioni patriottiche, l’imposizione di un sistema politico democratico che rinunciava “per sempre” alla guerra ed al mantenimento di “forze di terra, di mare e dell’aria”. Insieme a ciò vennero addirittura decisi a Washington i programmi educativi e culturali giapponesi e la ridefinizione dell’economia nell’arcipelago. Il Giappone tornerà ad essere un Paese formalmente indipendente soltanto nel 1952, dopo la firma e l’entrata in vigore del trattato di Pace di San Francisco, che sanciva le riforme fatte sino ad allora dopo la “resa incondizionata” del 1945 e smembrava l’impero giapponese, definendo i confini definitivi ed ufficiali dell’arcipelago e ponendo in questo modo le isole Ryukyo, fra cui Okinawa, sotto amministrazione statunitense, con la rinuncia formale di Tokio a rivendicare tali territori. Nello stesso giorno della firma del trattato di pace fu firmato un accordo bilaterale di sicurezza con gli Stati Uniti (revisionato nel 1960) che garantiva la presenza di basi e forze militari Usa in Giappone e garantiva altresì il loro utilizzo per mantenere, con linguaggio orwelliano, la pace e la sicurezza internazionale nell’area.

La guerra di Corea e successivamente quella del Vietnam, fondamentali dal punto di vista Usa per il controllo dell’Asia orientale ed il contenimento dell’Unione Sovietica nel quadro della guerra fredda, rendevano quindi centrale il rapporto privilegiato fra Giappone e Usa ed, in particolare, “l’amministrazione fiduciaria” posta da questi ultimi sull’isola di Okinawa, che si trovava nella situazione, unica del suo genere, di essere la sola colonia costituita dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per moderare tale situazione evidentemente in contraddizione con la politica dell’Onu, il segretario di Stato Dulles cominciò a parlare di “residua sovranità” del Giappone sull’isola, e, sebbene questa formula fosse interpretata come la possibilità di ricondurre un giorno queste isole sotto la sovranità giapponese, era sin troppo chiaro che fin quando non si sarebbe proceduto ad una normalizzazione dell’area (soprattutto dopo l’inizio della guerra in Vietnam) questa sarebbe stata una pia illusione; anche perché i giapponesi ponevano teoricamente delle limitazioni all’utilizzo delle basi americane poste in territorio sovrano, limitazioni che chiamate “livello della terra ferma” prevedevano la messa al bando ed il libero uso delle armi nucleari. Comunque nel 1969 il problema venne risolto con un accordo (firmato nel 1970 ed entrato in vigore nel 1972) che riportava Okinawa sotto sovranità giapponese ed assoggettava teoricamente le basi americane alle limitazioni previste; in realtà oggi sappiamo, perché citati dall’ex Premier Hatoyama, della presenza di accordi segreti che sebbene mai venuti alla luce, di certo garantivano e garantiscono ancora la continuità della sovranità americana in Giappone ed a Okinawa in special modo per quanto riguarda le scelte di carattere militare (2).

Ancora oggi ci sono in Giappone all’incirca 90 strutture militari statunitensi, per un totale di 3.130.000 metri quadrati, il 75% dei quali soltanto ad Okinawa. Queste basi, fino ad oggi facilitate nella presenza dal grande sforzo economico della popolazione giapponese (3) (sono anche esenti da affitto) sono concentrate in poche aree precise: 37 ad Okinawa (coprono il 18% del suolo dell’isola), 15 a Kanagawa, 11 a Nagasaki, 7 a Tokyo. Su 52.000 soldati americani la metà stazionano a Okinawa. Questa ha avuto un ruolo fondamentale rispettivamente nella guerra di Corea, nella guerra del Vietnam, nella guerra del Golfo, nelle invasioni in Iraq ed Afganistan; quindi rimane ancora oggi un fulcro del sistema di espansione mondiale degli Stati Uniti, dopo essere stata l’avamposto per la dottrina del containment nell’arco asiatico. Infatti la vicinanza a diversi possibili focolai regionali di crisi rende centrale l’importanza della presenza statunitense nell’isola, anche per la rapidità di intervento.

La messa in discussione della presenza statunitense non è quindi una notizia di poco conto e spiega bene perché su questo problema sia caduto il Premier Hatoyama (4) e perché dagli Stati Uniti sia arrivata una forte reazione diplomatica a difesa della insindacabilità della presenza dei propri militari. L’altro arco fondamentale nel vecchio containment americano, quello occidentale, è anch’esso oggi sottoposto a frizioni tanto da far parlare di “una guerra a bassa intensità” (5) per destabilizzare la Turchia (altro Stato ospitante numerose basi Usa/Nato) ed impedire un suo protagonismo nell’area. Tutto questo conferma quanto la dottrina del contenimento dell’Urss in realtà non fosse che un faccia del classico obiettivo strategico statunitense, ossia l’occupazione e l’accerchiamento della massa continentale eurasiatica, per impedirne l’unità considerata pericolosa per gli interessi anglo-americani. La volontà di parte della classe dirigente attuale giapponese di un ripensamento della relazione speciale con gli Usa è figlia anche dell’emergere di nuove potenze e può essere da esempio per le classi dirigenti europee; come il Giappone oggi emergente, considera fondamentale una coesistenza con il gigante cinese (oggi come teoricamente ai tempi della sfera di Co-prosperità, dall’eloquente motto “l’Asia agli asiatici”) e punta quindi ad una maggiore sovranità legata anche al benessere ed alla difesa degli interessi dei propri cittadini, così in Italia, Francia, Germania per citare alcuni Stati in cui sono presenti numerose basi militari nord-americane che di conseguenza mantengono questi territori in una posizione di sovranità limitata, si potrebbe prendere coscienza di una situazione mai affrontata con coraggio.

*Matteo Pistilli

Note:

1) La “normalizzazione” del Giappone: reazione degli Usa verso i Paesi “emergenti” (Matteo Pistilli) http://www.eurasia-rivista.org/4512/la-normalizzazione-del-giappone-reazione-degli-usa-verso-i-paesi-emergenti

2) Giappone: desecretati i patti clandestini imposti dagli USA (Matteo Pistilli) http://www.eurasia-rivista.org/3072/giappone-desecretati-i-patti-clandestini-imposti-dagli-usa

3) Il Giappone è lo Stato che più di ogni altro mette a bilancio fondi per sostenere basi controllate da stranieri; questo è uno degli aspetti intollerabili per la popolazione giapponese, ma ci si potrebbe porre il problema anche per esempio riguardo l’Italia, vista l’ingente presenza di basi militari sulla penisola e la probabile presenza di trattati segreti che la regola.

4) Per ricostruire cronologicamente la “questione Okinawa” dai contributi presenti su “Eurasia”:

Febbraio 2010 – Giappone: Desecretati i patti clandestini imposti dagli USA (Matteo Pistilli) http://www.eurasia-rivista.org/3072/giappone-desecretati-i-patti-clandestini-imposti-dagli-usa

Volontà, immaginazione, senso comune: ristrutturare l’alleanza nippo-statunitense (Jitsuru Terashima) http://www.eurasia-rivista.org/3846/volonta-immaginazione-senso-comune-ristruttura-lalleanza-nippo-statunitense

Maggio 2010 – Okinawa in piazza contro la base USA (Matteo Pistilli) http://www.eurasia-rivista.org/3960/okinawa-in-piazza-contro-la-base-usa

Giugno 2010 – La “normalizzazione” del Giappone: reazione degli Usa verso i Paesi “emergenti” (Matteo Pistilli) http://www.eurasia-rivista.org/4512/la-normalizzazione-del-giappone-reazione-degli-usa-verso-i-paesi-emergenti

5) “Strategia della tensione” contro la Turchia, (Aldo Braccio) http://www.eurasia-rivista.org/4706/strategia-della-tensione-contro-la-turchia

Matteo Pistilli :::: 23 giugno, 2010 - Eurasia

La “normalizzazione” del Giappone: reazione degli Usa verso i Paesi “emergenti”

Il 4 giugno 2010, infine, il premier giapponese Hatoyama ha presentato le dimissioni e nell’arcipelago nipponico si è proceduto alla nomina del sostituto, Naoto Kan, e di nuovi 11 ministri.

La parabola dell’ex premier si è quindi conclusa dissipando in poco tempo l’enorme appoggio popolare che ne aveva salutato l’elezione otto mesi orsono: il principale obiettivo che aveva reso possibile quella vittoria era l’impegno di chiudere la base militare di Okinawa e ripensare i rapporti con Washington divenuti intollerabili, per peso economico e sudditanza politica, per la popolazione giapponese.

Nel febbraio il premier Yukio Hatoyama aveva promosso una commissione d’inchiesta per indagare sui patti segreti firmati da Giappone e Usa dopo la fine della seconda guerra mondiale – con l’obiettivo di ripensare la sclerotica politica estera (1) – ed in aprile una grande manifestazione effettuata proprio ad Okinawa aveva ricordato al Governo democratico la promessa fatta nel 2009 esprimendo altresì la contrarietà ad un semplice spostamento della base americana in un’altra zona dell’isola (2). L’impossibilità di raggiungere questo obiettivo ha portato alle dimissioni del primo ministro ed alle dichiarazioni del suo sostituto, che ha subito assicurato gli Usa sulla volontà giapponese di rispettare i patti con gli Stati Uniti e quindi di essere favorevole alla ri-localizzazione della base di Futenma. Infatti a fine maggio l’ormai ex premier aveva dovuto annunciare quella che è ritenuta una vittoria per l’amministrazione Obama, ossia il semplice spostamento della base al nord dell’isola, provocando nuove manifestazioni di disapprovazione e gli ormai classici “Usa go home” lo avevano accolto nel suo secondo viaggio sull’isola.

Ha influenzato la vicenda, oltre alla classica debolezza con cui il Giappone si rapporta agli Usa, anche un controverso incidente avvenuto nella notte del 26 marzo davanti alle acque territoriali della Corea del Nord: le agenzie occidentali hanno riportato l’affondamento di una corvetta sud-coreana ad opera di un sottomarino di Pyongyang: il problema però è che quella stessa notte era in corso una esercitazione militare navale congiunta Usa-Corea del Sud, e sembra dubbio – anche ad una firma del Washington Post (3) – che durante un simile dispiegamento di forze (quasi una provocazione allo stato nord-coreano, vista la vicinanza al suo spazio), un sottomarino possa essersi avvicinato senza essere notato dagli avanzati radar ed abbia potuto abbattere una corvetta fra l’altro utilizzando un missile tedesco (La Corea del Nord non utilizza quel tipo di armamenti). Comunque sia è evidente come il ventilato pericolo nord-coreano risponda alla logica dall’amministrazione statunitense e venga utilizzato come spauracchio nelle relazioni con il Giappone (e nell’area), non essendoci più “l’impero del male” sovietico con cui giustificare il dispiegamento delle proprie basi militari.

Eppure il dispiegamento di basi è ancora oggi necessario dal punto di vista degli Stati Uniti: l’espansionismo è la caratteristica principale della politica estera Usa e risponde alla funzione di difendere il sistema “occidentale” nato dalla seconda guerra mondiale – formato da tutto l’apparato “nord-atlantico” e “universale” basti pensare a FMI, Banca Mondiale, WTO - contro le sfide che gli altri “attori egemoni” Cina, India, Russia gli stanno ponendo, mettendo in discussione l’unipolarismo.

Insieme alla crisi interna ed al troppo esteso dispiegamento di forze “imperialiste”, a mettere in pericolo l’egemonia nord-americana sono i rapporti con i Paesi che il direttore della rivista “Eurasia” Tiberio Graziani, annovera fra gli “attori emergenti”(4) e fra i quali per quanto riguarda il continente eurasiatico rientrano Giappone e Turchia. Ora pare evidente come ci troviamo proprio nel momento in cui questi due Stati sono al centro del ciclone dei rapporti internazionali; le intenzioni di allontanarsi da un troppo stringente controllo della potenza di riferimento, ormai fuori tempo negli squilibri multipolari che si stanno affacciando all’orizzonte, ha portato tali Stati a porre in essere scelte autonome provocando così la reazione degli Stati Uniti. Il cambio di governo giapponese rientra quindi in una tentata “normalizzazione”, che nella evoluzione delle attuali relazioni internazionali non potrà essere definitiva; allo stesso modo ci si potrebbe aspettare una “normalizzazione” nei rapporti con la Turchia, che sta subendo, specie dopo il dialogo con l’Iran, una destabilizzazione interna che comunque viene da lontano; Ankara, infatti, dopo essere stata un baluardo della Nato vicino al cuore dell’Eurasia, si sta smarcando da tale ruolo e punta a diventare un potenza regionale fondamentale nei rapporti fra Europa, Asia e vicino oriente.

Note:

1) http://www.eurasia-rivista.org/3072/giappone-desecretati-i-patti-clandestini-imposti-dagli-usa

2) http://www.eurasia-rivista.org/3960/okinawa-in-piazza-contro-la-base-usa

3) http://blog.washingtonpost.com/spy-talk/2010/05/asian_analysts_question_korea_torpedo_incident.html?hpid=news-col-blog

4) “La categoria degli attori emergenti raggruppa, invece, quelle nazioni che, valorizzando particolari atout geopolitici o geostrategici, cercano di smarcarsi dalle decisioni imposte loro da uno o da più membri del ristretto club del primo tipo. Mentre lo scopo immediato degli emergenti consiste nella ricerca di una autonomia regionale e, dunque, nell’uscita dalla sfera d’influenza della potenza egemone, da attuarsi principalmente mediante articolate intese ed alleanze regionali, transregionali ed extra-continentali, quello strategico è costituto dalla partecipazione attiva al gioco delle decisioni regionali e persino mondiali”

http://www.eurasia-rivista.org/3861/la-russia-chiave-di-volta-del-sistema-multipolare

Matteo Pistilli :::: 8 giugno, 2010 - Eurasia

Okinawa in piazza contro la base USA

In 100.000 sono scesi in strada nell’isola di Okinawa, nel sud del Giappone, per chiedere la chiusura della base militare americana di Futenma presente dalla fine della seconda guerra mondiale e che accoglie quasi la metà dei 50.000 militari Usa (a cui si possono aggiungere 50.000 unità civili) stanziati nell’arcipelago nipponico. Si è trattato di una delle più grandi manifestazioni politiche mai effettuate nell’isola, ancora più importante perché sostenuta da tutto il panorama politico giapponese – dai conservatori ai partiti di sinistra – che chiede a gran voce l’allontanamento dei militari yankee.

I manifestanti, nell’occasione colorati di giallo per richiamare il colore del cartellino che usano gli arbitri di calcio per ammonire, hanno voluto appunto ammonire il Governo giapponese e ricordargli le promesse fatte al momento dell’insediamento. Il premier Hatoyama, attraverso i lavori di una commissione ministeriale ad hoc, aveva infatti sin dai primi tempi avviato la revisione di un accordo firmato con gli Stati Uniti nel 2006, in cui si decideva di spostare la base a Camp Schwab e Oura Bay, altre località meno popolate dell’isola. Ma adesso i cittadini ricordano ai propri rappresentanti di essere contrari ad una semplice ri-localizzazione, che manterrebbe Okinawa come fondamentale sito militare Usa ed hanno scritto sui propri striscioni dei chiarissimi “Usa go home”.

La protesta non riguarda quindi soltanto le angherie che i militari Usa perpetrano ai danni della popolazione locale, come per esempio lo stupro di una bambina di 12 anni nel 1995 che già provocò malcontenti, ma si allarga ad un vero e proprio nuovo corso delle rivendicazioni di sovranità e giustizia del popolo giapponese. Nel mese di febbraio una commissione di inchiesta promossa dal primo Ministro aveva indagato sugli accordi segreti firmati dopo il secondo conflitto mondiale dallo sconfitto Stato nipponico e i vincitori statunitensi ai danni della sovranità della popolazione giapponese (1). E se i risultati di tale inchiesta non sono stati divulgati chiaramente, a causa, secondo il Governo, della distruzione dolosa nei cinquant’anni di conduzione liberal-democratica di numerosi documenti, il significato ed il messaggio sono arrivati eccome alle orecchie di chi doveva sentire. Il nervosismo negli Usa è infatti notevole avendo nelle basi militari installate dopo la vittoria mondiale del 1945, il principale fulcro per il mantenimento della propria prerogativa mondiale, dell’unipolarismo oggi messo in discussione. Se infatti, oltre ai problemi del dollaro, a quelli dovuti all’emergere ed alla cooperazione di altre grandi potenze, sommiamo la possibilità di perdere, o comunque vedersi mettere in discussione, la presenza militare in Giappone, che potrebbe essere da esempio per altre situazioni simili, il nervosismo statunitense pare ampiamente giustificato.

Il fatto è che le basi militari Usa installate in diverse parti del mondo, particolarmente Europa occidentale ed Asia orientale in funzione anti-sovietica, svelano oggi agli occhi anche dei meno accorti il proprio significato geopolitico, il ruolo di gendarme mondiale incarnato dagli Usa e, di conseguenza, sempre meno popoli riescono a sopportare di vivere in una condizione di sovranità limitata. Se poi sommiamo il fatto che queste basi militari sono sostenute economicamente dai governi e quindi le popolazioni locali, sembrano più che legittime le parole di chi, come Jitsuro Terashima, consigliere per la politica estera del primo ministro Yukio Hatoyama (2), chiede un ripensamento del rapporto di subalternità nei confronti degli Stati Uniti. Non possono pagare i giapponesi, gli italiani, i tedeschi (altre nazioni oggetto di accordi segreti ancora non divulgati, che vedono la presenza sul proprio territorio anche di armi nucleari Usa) i mezzi per attuare la strategia geopolitica nordamericana del terzo millennio. Ed è proprio quello che sembrano dire i manifestanti di Okinawa chiedendo il ritiro dal Giappone dell’ingombrante presenza statunitense; la presenza alla manifestazione, per la prima volta nella storia, di esponenti del Partito Liberal-Democratico, sembra confermare la solidità delle rivendicazioni.

Matteo Pistilli :::: 1 maggio, 2010 - Eurasia

Giappone: desecretati i patti clandestini imposti dagli USA

Per anni i responsabili giapponesi hanno fatto di tutto per nascondere i patti clandestini firmati segretamente con gli Stati Uniti negli anni della guerra fredda, aventi lo scopo di assicurare agli Usa il controllo dell’Asia orientale; tali patti obbligavano il Giappone a far stazionare presso i propri porti armi nucleari statunitensi nonché a pagare il costo dell’occupazione militare americana.

Addirittura, nel 1972, dopo aver negato voci attendibili di protagonisti e diplomatici sull’esistenza degli accordi, fu arrestato un giornalista che aveva portato alla luce prove evidenti. Ora la questione torna alla ribalta grazie alla volontà del nuovo Governo giapponese, eletto la scorsa estate dopo un cinquantennio di ininterrotto governo liberal-democratico, che a quanto pare vuole farla finita con anni di reticenze e controllo burocratico. In febbraio sono infatti attese le risposte di un gruppo di studio creato ad hoc dal Ministero degli esteri.

Il Governo guidato da Yukio Hatoyama che si sta segnalando fra l’altro per l’indipendenza con cui sta reclamando il trasferimento di una base americana a Okinawa (tanto da aver ricevuto un richiamo ufficiale dal Ministro degli esteri Usa Hilary Clinton), sta spaventando i fautori del patronato Usa in Giappone, che temono un allontanamento di Tokyo da Washington.

Se questa sopravvenuta indipendenza non produrrà nel medio periodo la temuta fine dell’alleanza fra Giappone e Usa, considerata da questi ultimi una “pietra miliare” per la sicurezza (ossia sicurezza degli interessi strategici Usa) dell’Asia orientale, di certo produrrà degli effetti culturali e politici non indifferenti. Primo fra tutti bisognerà ripensare i concetti che impediscono il riarmo nucleare del Giappone quando sarà evidente che armi nucleari sul suolo giapponese ci sono sempre state e per di più sotto controllo americano. E si porrà la possibilità di revisione della Costituzione “pacifista” imposta dai vincitori della seconda guerra mondiale, oltre che l’eventuale richiesta di eliminazione delle basi militari Usa ancora presenti.

La possibilità di raggiungere alcuni documenti non più secretati (ma quanti ancora lo sono?) darà la possibilità di sapere qualcosa in più su quanto successe subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e aiuterà a capire in che modo fu amministrata la forza americana dipanata nel mondo.

Questo sarà interessante anche per quanto riguarda l’Italia che nel dopoguerra ebbe, con tutte le differenze del caso, un trattamento per certi versi simile a quello giapponese, con l’istallazione di numerose basi Nato/Usa sia terrestri sia marittime sul proprio territorio, data l’importanza strategica durante la guerra fredda; gli archivi militari e civili, europei ed americani ci diranno sicuramente verità in più, che in tempi di democrazia (termine più che mai abusato a quanto pare), sarebbero dovute essere di dominio pubblico già da molto tempo, ma che, per gli effetti che potrebbero avere sul sistema di sicurezza statunitense, vengono rese note con reticenza quando non negate.

:::: Matteo Pistilli :::: 15 febbraio, 2010 Eurasia

Terrorismo Ambientalista e Governo Mondiale

Ci sono temi che non passano attraverso il filtro delle idee politiche o della diversità culturale dei vari popoli, ma che vengono diffusi e presi per buoni dalle istituzioni che operano a livello mondiale. Tali questioni sono il pane quotidiano delle organizzazioni transnazionali e dei vari gruppi che si muovono a quel livello.

La prima in assoluto è la “questione ambientale”. Le grandi organizzazioni “globali” ne hanno fatto il proprio cavallo di battaglia, il Presidente degli Stati Uniti ha utilizzato l’attenzione all’ambiente come tema privilegiato nella campagna elettorale nella quale ha stravinto, e ora tutto il mondo si aspetta grandi “cambiamenti”. Ma la realtà dei fatti è più spinosa di quella che sembra. Per cominciare bisognerebbe chiedersi se l’interesse per l’ambiente di questi grandi poteri sia una garanzia di cambiamenti in senso positivo: ci aspettiamo davvero che il governo statunitense, o l’Onu, agiscano per il nostro bene? Da decenni parlano e compiono riforme economiche che non hanno portato a nulla se non al capitalismo sfrenato e alla crisi economica; da decenni parlano di “sviluppo” dei paesi poveri (“in via di sviluppo”, appunto), ma la situazione è costantemente peggiorata; da secoli parlano di “pace”, ma continuamente scoppiano, per interessi inconfessabili, nuove guerre (che un certo “pacifismo” ritualizzato non ha gli strumenti per esorcizzare). Questo non per fare del pessimismo cosmico, ma per sottolineare come sono proprio i poteri che sono dietro la globalizzazione economica (liberismo, capitalismo) e la mondializzazione culturale che si trovano in prima fila per denunciare i pericoli ambientali. Non è sospetto tutto ciò?

Ma ovviamente gli interessi di chi denuncia il degrado ambientale e chiede immediati provvedimenti non è quello di preservare l’ecosistema (distrutto a causa dell’attuale modello economico, mai messo in discussione), bensì quello di creare un allarme globale al quale far seguire un Governo Mondiale. Dopo aver terrorizzato l’intero globo attraverso film hollywoodiani, diffusi da MTV e da ogni canale occidentale, dopo aver inculcato all’intera popolazione mondiale l’incubo della fine del mondo, avranno gioco facile a far accettare a tutti provvedimenti globali, e quindi un Governo Globale. È chiaro come un Governo Mondiale abbia un centro decisionale ben preciso ed è proprio questo che ci aiuta a capire la questione: infatti chi oggi ritiene necessario questo Governo Mondiale non sono altro che gli appartenenti alla coalizione “occidentale” guidata dagli Stati Uniti d’America, vale a dire l’unica superpotenza che oggi si trova in declino e che, per preservare il proprio dominio, tenta questa strada globalizzatrice. In questo modo riuscirebbe a mantenere salde (o a riprendere) le redini del “villaggio globale” che, dopo il crollo dell’URSS, ha tentato di costruire.

Con nuove potenze in enorme crescita, potenze come Russia, Cina, India che sempre più spesso compiono scelte in contrasto con Washington, gli Usa si trovano oggi in difficoltà, e la crisi economica che colpisce soprattutto l’egemonia del dollaro non fa che peggiorare la situazione; ecco allora che il terrorismo ambientale è un’ottima strategia per poter imporre al mondo intero alcune scelte le quali potranno preservare l’egemonia a stelle e strisce. Più praticamente, oltre il Governo Mondiale vero e proprio, che non sarebbe altro che l’istituzionalizzazione della globalizzazione (coerentemente con il “Destino Manifesto” americano, che tradizionalmente postula che siano gli Stati Uniti a dover guidare l’intero globo), in ambito ambientale ci sono dei precisi campi d’azione con i quali si vuole preservare l’egemonia yankee. Primo fra tutti è il modo con cui si è deciso di applicare le riduzioni di emissioni nocive; gli Stati Uniti non hanno mai accettato e firmato il protocollo di Kyoto per un motivo semplicissimo: per loro avrebbe senso soltanto se venisse firmato dalle potenze in rapida crescita, in primis India e Cina, così che si possa mantenere l’attuale scarto a vantaggio degli USA; infatti applicare le suddette riduzioni significa investire in tecnologie e sicurezza , cosa che comporta una riduzione della ricchezza nazionale e quindi della crescita; ma finchè a dover investire sono tutti, gli attuali equilibri vengono mantenuti. Senza contare come gli Usa, da centro unipolare quale sono, cercano di accaparrarsi le moderne tecnologie (soprattutto brevetti e cervelli), e lasciare agli altri le tecnologie obsolete. Purtroppo (per gli Usa) le cose non sono così facili: in primo luogo Cina e India non sono tenute a firmare Kyoto in quanto hanno diritto a pervenire allo “sviluppo” che in passato hanno raggiunto, senza badare agli effetti dell’inquinamento, le potenze occidentali; in secondo luogo, l’inquinamento pro capite di Cina e India è di circa 20 volte più basso di quello Usa, per via del gran numero della popolazione e per la vastità di questi Stati; quindi, porre dei freni (in questo modo) al loro inquinamento è un modo per colpire duramente la ricchezza nazionale e le popolazioni di quei Paesi (che per il livello economico e sociale in cui si trovano sono migliaia di anni luce in avanti rispetto all’Occidente riguardo l’utilizzo di materiali riciclati e sostenibili), a tutto vantaggio di una minoranza ricca occidentale, che in quel modo si assicura di preservare il proprio eccessivo stile di vita.

Un’altra conferma che l’interesse alla riduzione delle emissioni ha come scopo il mantenimento dell’egemonia occidentale a guida statunitense è il modo in cui questa verrà attuata. In pochi infatti fanno notare come la politica contro l’inquinamento presuppone un vero mercato borsistico in cui si metteranno in vendita porzioni di inquinamento; è il meccanismo definito Cap and Trade, secondo il quale le imprese che eccederanno nell’inquinamento potranno pagare, cioè comprarsi, quella quota eccedente. Peccato, ed è qui che si capisce l’inganno, che non si voglia fare una vera e propria tassa pubblica sull’inquinamento a tutto vantaggio degli Stati, ma che tutto questo debba avvenire in una borsa privata, la Chicago Climate Exchange (1), di cui la famigerata banca Goldman Sachs ha già provveduto a rilevare il 10%. È chiaro come in questo modo, con una borsa controllata dagli Stati Uniti, si ripropone il vantaggio che Washington ha avuto sino ad ora, per esempio grazie all’utilizzo del dollaro come valuta di riferimento mondiale. Chi controlla il banco vince, e protegge la propria supremazia. E per fare tutto questo, come detto, c’è bisogno di terrorizzare e globalizzare l’opinione mondiale, cosa che fanno egregiamente personaggi come Cohn-Bendit, leader ecologista legato a Joschka Fischer (2), che sulle pagine dei quotidiani propaganda il capitalismo, l’economia di mercato, afferma che non ci sono più ideologie e ci insegna come l’ecologismo sia il nuovo modo per attrarre consensi. O come fanno egregiamente le centinaia di film come l’ultimo “The age of stupid”, utili per creare allarme e convincere le popolazioni mondiali, primi fra tutti le classi dirigenti onusiane, che le misure sin qui citate sono necessarie per il bene di tutti.

Un’altro tema simile a quella ambientale, ma oggi lasciato in secondo piano, è quello “storico” relativo al problema dell’eccessivo peso demografico delle popolazioni mondiali. Per tutta una schiera di “studiosi”, infatti, il mondo si avvia verso la catastrofe poiché ha troppi abitanti. Conosciamo questa posizione perché ripetuta sin dagli anni 70, preannunciando disastri ambientali, dal “Club di Roma”, e negli anni seguenti da varie agenzie dell’ONU, fino a giungere ai nostri giorni, in cui non è più propagandata come prima (è sostituita dai “disastri” ecologici), ma rappresenta il coerente completamento della “questione ambientale”. Basti pensare che il maggiore consigliere di scienza e tecnologia di Obama, John Holdren, ha scritto un libro (3) in cui auspica un “Regime Planetario” col quale attraverso una “forza di polizia globale” si possa amministrare la demografia mondiale. In questo libro arriva ad auspicare (leggere per credere) aborti forzati, sterilizzazioni forzate e via dicendo; come è facile notare, l’interesse è sempre quello di mantenere l’egemonia mondiale “statunitense” (o meglio delle elite mondialiste), ed infatti l’autore fra le altre cose afferma: “Per fortuna nella maggior parte dei Paesi Sviluppati, quasi tutti i gruppi si controllano nel riprodursi”; questo sottolinea come, ancora una volta, il problema, per costoro, sono le grandi masse dei “Paesi in via di sviluppo”, che producendo ricchezza stanno sfidando gli attuali equilibri mondiali. Non è un caso che da questi stessi ambienti si consideri estremamente positiva l’emigrazione (con spregio per i drammi umani che nasconde), in quanto questa concorre a creare un villaggio globale (la globalizzazione senza culture) e a spostare masse di sfruttabili, a tutto vantaggio del futuro centro del Governo Mondiale responsabile dell’amministrazione di tutto ciò.

Per concludere, è evidente come un miglioramento della situazione ambientale sia un vantaggio per tutti i popoli della terra, ma bisogna tenere gli occhi ben aperti e valutare chi e come dice di voler risolvere la questione. Quello che si sta notando in questi tempi in cui l’egemonia degli Usa è messa in pericolo da crisi economica e crescita di potenza di altri Stati, è l’interesse di Washington e dei suoi vassalli nel creare la necessità fittizia di un Governo Mondiale. In questo modo si riuscirebbe a mantenere ancora il decadente unipolarismo Usa, frenando il sorgente multipolarismo, garante di maggiore giustizia internazionale. Un approccio costruttivo e civile (nel senso proprio “di civiltà”) a tali questioni, quindi, non deve passare dalla creazione di un Governo Mondiale (che ricorda da vicino l’incubo preconizzato da Orwell), bensì attraverso la ricerca di sovranità, attraverso maggiore integrazione e cooperazione regionale e continentale fra Stati ed aree come lo spazio eurasiatico, il Sud America ecc. Solo un approccio di questo tipo garantirà equilibrio e giustizia nei rapporti internazionali e, di conseguenza, per le popolazioni di tutto il mondo.

1) “Sarà la carbon-tax, lo vuole Goldman e Rothschild”, di Maurizio Blondet – www.Effedieffe.com, 12 luglio 2009

2) Riprendo da un altro articolo: “Un’appendice particolare merita il presidente del Nabucco (il gasdotto “americano” antagonista di quello euro-russo South Stream): Joschka Fischer. Questo, nel sessantotto attivissimo esponente “rivoluzionario”, poi verde-ambientalista, oggi è a capo del progetto Nabucco; esso è membro del Council on Foreign Relations, la fondazione privata dei Rockefeller, che è praticamente il centro dove si teorizza la politica estera statunitense e da dove nascono sia il gruppo Bilderberg che la Trilateral (giganti del capitalismo e del liberismo sfrenato). Oltre a confermarci la totale sottomissione agli interessi Usa, questo ci fa notare come il percorso individuale di alcuni famosi personaggi, che dal liberale Sessantotto sono passati alla fine ideologica della politica rappresentata dai verdi e dagli ambientalisti, oggi siano fautori di interessi petroliferi e capitalistici statunitensi… non si pensi ad un’eccezione, è la regola”. http://www.cpeurasia.org/?read=30420

3) Il libro è titolato “Ecoscience”; ne ha parlato ultimamente ancora M. Blondet riportando un articolo di “PrisonPlanet” titolato “Il maggior
e consigliere scientifico di Obama auspicava il controllo forzoso della popolazione”. Per quanto riguarda John Holdren: http://en.wikipedia.org/wiki/John_Holdren


:::: Matteo Pistilli :::: 24 settembre, 2009 - Eurasia 

L'anticomunismo nasconde l'antifascismo... e viceversa


Sentiamo troppo spesso nei commenti dei mass media e dei vari parolai da copertina la condanna di idee, insegnamenti, esperienze e persone accusate di essere collegate con fascismo o comunismo. Purtroppo a cadere in questo tranello sono spesso coloro che non accontentandosi dell’attuale sistema politico, cercano, come naturale, risposte in esperienze passate e concluse, ma che hanno rappresentato le uniche alternative al mondo globalizzato e liberale odierno. Ma quello che bisognerebbe avere ben chiaro, oltre alla necessità di applicare valori ed esperienze comuni passate, all’oggi, quindi per forza di cose totalmente ri-pensate, è che la condanna nel fascismo o del comunismo fanno parte dello stesso genere di idee. Infatti chi si attacca nel 2010 all’antifascismo, quindi facendo la propria battaglia contro un nemico inesistente politicamente e anche idealmente, oltre ad essere destinato alla sconfitta ed alla disperazione, perché non si vince contro un nemico inesistente, sarà naturalmente portato a schierarsi contro il comunismo. E viceversa. Quante volte infatti sentiamo dirci “il fascismo ha creato tante distorsioni e ingiustizie” e poi incalzati da qualcuno abbiamo sentito aggiungere “certo anche il comunismo che ha fatto anche più morti”. Se la logica per giudicare esperienze passate è la conta dei morti, in realtà niente sarebbe più terribile dei milioni di cadaveri fatti dalle potenze democratiche: basti pensare che gli unici a sganciare una bomba atomica su una popolazione inerme e a guerra finita sono stati gli Stati Uniti. Ma in realtà questo genere di discorsi si basano su una concezione della storia buona per MTV, una storia ripulita e corretta da chi ha vinto, prima contro il fascismo e poi contro il comunismo: così è stato possibile la dannazione di tali esperienze e l’elogio dei vincitori. E a nulla valgono le idee per cui “il fascismo vero non è quello che è stato attuato” o lo stesso “Stalin non era comunista, lo stalinismo non è vero comunismo”. Fesserie buone per chi vuole farsi ingannare dalle parole dei novelli tiranni democratici. Chi accetta l’anticomunismo per forza sarà portato ad accettare l’antifascismo in quanto sono formati dalla stessa materia, rispondono alla stessa identica logica di ignoranza della storia e delle idee: il rifiuto di esperienze alternative all’attuale dominio globalizzato liberale e democratico, dipinte come feroci, assassine senza il minimo di correttezza e sincerità. Oggi il vero totalitarismo si vede nella dannazione di queste idee, falsamente accomunate alla destra ed alla sinistra: quando poi mai un comunista (vero) si è definito di sinistra (anzi Marx diceva che destra e sinistra sono categorie borghesi) e mai un fascista (vero) si è definito di destra (Mussolini parlava chiaro sottolineando che il fascismo non poteva essere catalogato con queste categorie). Dietro all’antifascismo c’è per forza di cosa l’accettazione dell’anticomunismo e dietro l’anticomunismo ci sarà la condanna del fascismo visto come esperienza negativa come l’altra.
Noi invece vi chiamiamo ad accendere il cervello non cadendo nei tranelli ideologici dei dominanti. Coma mai oggi ci presentano Chavez, Putin, Ahmadinejad, Fidel Castro, Hu Jintao, Kim Jong Il ecc.. - simboli fra l’altro totalmente diversi fra loro - un giorno come perfidi comunisti un giorno come perfidi fascisti? La storia va ripensata, le idee anche, ma non bisogna avere paura di guardare ovunque, anche a fascismo e comunismo così da poter elaborare nuove idee capaci di fronteggiare l’odierno consumismo “democratico” che vuole invece distruggere tutto ciò che gli si oppone.


M. Pistilli - Patria n. 24 - giugno 2010

Intervista alla mente dei Rampinelli Jazz Quartet


Intervista ad Ugo Piazza, voce e mente contorta del gruppo musicale RJQ. Da questo numero Patria ha deciso di dialogare con i più interessanti ed anticonformisti ambienti musicali, culturali, artistici del pollaio globale. Speriamo di fare cosa gradita agli interlocutori ed ai nostri lettori.

Rampinelli Jazz Quartet, un nome ingannevole? Chi siete, puoi delinearci in breve da dove venite e dove andate?

Gli altri componenti del gruppo vengono dalla scena rock pavese, hanno suonato o suonano tutt'ora in gruppi (Doppiosenso, La debole cura, Burstick e diversi altri) che vanno dall'alternative rock - con influenze tipo Afterhours - al punk demenziale... Siccome io, il bassista e il chitarrista eravamo amici, nonché aficionados del reality-capolavoro "La pupa e il secchione" ci siamo chiesti, tra una sbronza e l'altra, perché non mettere in piedi un gruppo, e l'abbiamo chiamato Rampinelli Jazz Quartet (Rampinelli era il nome di uno dei magnifici secchioni), essenzialmente perché non ce ne fregava niente di niente e volevamo disorientare l'ascoltatore. Il batterista era una conoscenza degli altri due. Abbiamo passato un inverno a scrivere pezzi che trattavano di vip drogati e idiozie senza senso, poi abbiamo piantato lì, e abbiamo ripreso due anni dopo, con uno spirito più folle e meno demenziale. Adesso non andiamo precisamente in nessuna direzione, se non verso colossali sbronze e serate di putiferio sonoro.

Si infatti quello che si nota è la follia, che non va confusa con la mancanza di temi o di un'intelligenza acuta...

In sostanza a me piace prendere per il culo gli alternativi e spesso dico scemenze per il gusto di dirle. Celebri i miei racconti delle serate passate al Billionaire con Flavio Briatore strafatto di ketamina. Diciamo che lo stile che spunta in alcuni pezzi è una fusione della mia attitudine demenziale e dell'ironia nei confronti di chi in questa società si prende sul serio aspirando a mettersi in cattedra, additando come modelli negativi e cancri del paese i vari vip cafoni e le puttane al loro seguito... Quando alla fine sono solo rappresentanti di un genere di idiozia diverso da quello di chi invece ama giudicare. Con questo, ovviamente, io mi pongo in una posizione di estremismo snobistico tale da snobbare gli snob contemporanei. Spero solo che non arrivi qualcuno di così snob da poter snobbare anche me, altrimenti sarei fottuto.

La stessa posizione che troviamo nella canzone "Gossip Blues"...potrebbe essere un inno contro la cultura di massa..

Sì, infatti è proprio a quel pezzo, in particolare, che mi riferivo: si apre dicendo "Mike Bongiorno è stato sepolto con dodici casse di prosciutto Rovagnati... è una vergogna, è un'infamia!" proprio per celebrare a modo nostro, insensatamente, un evento - la morte di Mike - che, nella nostra società, sembrava comportasse l'obbligo di dispiacersi. Ma a me non fregava proprio niente della sua morte, almeno non più di quelle delle altre migliaia di persone che ogni giorno vanno al Creatore.
Poi tutto il resto del pezzo è a metà tra l'esaltazione e la condanna della vita da pseudovip debosciato... O meglio, forse la condanna si esprime proprio nell'esaltazione. "Gossip Blues" rappresenta il lato più ubriacone, in fondo. La voglia di dire cazzate per il gusto di farlo, i desideri semplici che accomunano quasi chiunque, quali la figa e il divertimento, specialmente quando si è ubriachi e non si pensa... E questo non è positivo, ma fa parte della vita di chiunque, di qualunque idiota. Solo gli asceti e i reietti si astengono da questo.
Comunque non è che voglia essere un attacco diretto nei confronti della cultura di massa o di qualche personaggio in particolare. La cultura di massa è qualcosa di assolutamente variegato che, per certi versi, comprende tutto e il suo contrario... E proprio in questo sta la sua forza, del resto.
Io vado a periodi. Quando ho scritto la canzone la pensavo in un certo modo. Adesso, complici certe cose che mi sono successe e mi hanno un po' traumatizzato (niente di grave, comunque) ho cambiato idea. O meglio, sono proprio cambiato io. Mi interesso alla politica in modo molto più distaccato di quanto facessi prima. Non amo giudicare gli altri, non per fare quello superiore, ma proprio perché non me ne frega niente.
Comunque se c'è una cosa che trovo aberrante, in particolare, di questa società, è la totale intolleranza nei confronti dell'altro da sé, che sia l'Islam, la Corea del Nord, il Terzo Reich, l'Unione sovietica o il Tibet teocratico (che non era la patria dei freakettoni, come invece si crede qui). E questo è un carattere che si ritrova nella società italiana/occidentale quasi nella sua totalità, da destra a sinistra, per quanto queste categorie si possano ritenere valide. Si accetta il diverso, è un obbligo accettarlo, sì, però solo quando diventa uguale a noi. C'è una chiusura mentale assurda. Non c'è curiosità, non c'è voglia di confronto. Solo volontà di condannare moralmente.
Il dramma di questa società è che rende noioso e volgare quasi tutto... Soprattutto quello che finisce in televisione.
E a me non piacciono le persone noiose e volgari. Mi piacciono le persone interessanti. Io credo di essere una persona interessante. Non potrei sopravvivere se non mi sentissi interessante.

Parole sante, interessante ascoltarle da chi, come te, ha un approccio così "disperato" alla vita (non so se va bene disperato dimme tu); e altrettanto interessante sentire questo da l'autore di quello che è diventato un vero e proprio inno di "Patria" e dei suoi lettori: "Kim il Sung".

Per prima cosa credo che una canzone, così come una poesia o un film o altre opere che hanno un significato per definizione non esplicito, sia liberamente interpretabile... Potrebbe essere persino che qualcuno la capisse meglio di me che l'ho scritta, o magari semplicemente che ne ricavasse qualcosa di interessante.
Anche la mia interpretazione del pezzo è cambiata, come è cambiata la mia visione delle cose in generale...
Quando l'ho scritta la intendevo, di fatto, letteralmente: "Fanculo la libertà" non era solo una provocazione, ma l'affermazione di tutta una serie di convinzioni di stampo radicalmente "reazionario", nel senso di antiprogressista e antidemocratico. Diciamo che le mie idee politiche erano quelle dello Jünger nazionalmilitarista, mentre adesso sono quelle (non-politiche) dello Jünger anarca, per quanto possa sembrare ridicolo il paragone tra lui e me, e l'interpretazione è cambiata di conseguenza, spostandosi dal piano politico a quello strettamente esistenziale: quello che significa per me, ora come ora, questa canzone, è il disgusto per molte delle idiozie che sento dire e vedo fare in questo paese, a destra, come a sinistra, e in qualsiasi altro ambiente. In particolare l'idea che questa volgarità si voglia estendere progressivamente a tutto il mondo è parecchio inquietante... E il Presidente Eterno è la cosa più politicamente scorretta che c'è. E' incomprensibile, sconcertante, per chi vive di retorica sulla democrazia e la libertà.
Ora, io non credo di aver scritto un capolavoro, anzi, se possibile credo che la canzone verrà migliorata. Ma credo di aver fatto qualcosa di originale e di aver interpretato il sentire di qualcuno... E, almeno a livello simbolico, è la cosa più controcorrente che io abbia sentito negli ultimi tempi.

Politicamente scorretto per noi occidentali, che viviamo in un mondo ovattato e drogato dalla tirannia liberale democratica! Ci piace anche questo richiamarsi a Ernst Jünger, gli avete dedicato anche una canzone..

Sì, abbiamo fatto una canzone intitolata "L'operaio", come il suo famoso libro, anche se la qualità della registrazione lascia alquanto a desiderare, e quindi per ora abbiamo preferito divulgarla poco... E del resto verrà sicuramente modificata, se vogliamo continuare a suonarla, perché, a onor del vero, è uno dei nostri pezzi meno riusciti.
Comunque Jünger è uno degli intellettuali in cui mi rispecchio di più. E' elegante, sobrio, lucido ed estremamente profondo pur non essendo un vero e proprio filosofo. Le sue sono impressioni, più che considerazioni sistematiche. Ed è un po' anche il mio stile.
 Per non parlare delle esperienze fuori dal comune che ha vissuto, dall'essersi arruolato in Legione Straniera per vedere l'Africa, soltanto per via del disgusto della quotidianità borghese, alla sperimentazione dell'LSD. Jünger non si preoccupava di giudicare. Sezionava con la cura dell'entomologo la società e le persone, esclusivamente per la curiosità di studiarle.
Io mi sento un po' come lui. Solo con meno possibilità e meno coglioni, e in un'epoca più stupida.

Siamo davvero contenti di aver dato spazio ad una persona non conformista e culturalmente viva come te...Ora che progetti avete per il futuro? E salutandoci ci puoi lasciare un pensiero per i lettori di Patria?

Non so proprio quale sarà il nostro futuro... Intanto abbiamo partecipato ad un contest, e in finale ci siamo classificati terzi. I live ci hanno dato parecchia soddisfazione, abbiamo avuto un ottimo riscontro dal pubblico, e personalmente dico senza problemi che sono state tra le serate migliori della mia vita.
Adesso penso che continueremo a suonare in giro il più possibile, e forse vedremo di fare qualche nuovo gadget, tipo delle magliette. Per il disco vero e proprio, se mai vedrà la luce, credo ci sarà da aspettare del tempo.
Per quanto riguarda il pensiero che lascio ai lettori... Nella nostra epoca le categorie sociali si avvicinano sempre più a tre modelli, secondo diversi gradi: chi comanda, chi obbedisce, e chi ha mandato affanculo tutto. Io vi auguro di appartenere alla prima o alla terza categoria.